Attualità

Gravissima crisi fra Israele e i Territori Palesintesi

di Tommaso Pepe

«Ancora una volta due popoli sono prigionieri nella sfera della violenza», così David Grossman, scrittore israeliano, ha commentato i recentissimi scontri militari che hanno scosso i territori della Striscia di Gaza a partire da mercoledì.

Lo stato d’Israele e i Territori Palestinesi rischiano infatti di precipitare in una nuova, sanguinosa escalation militare che ripeta l’operazione Piombo Fuso del gennaio 2009, costata la vita ad oltre 1.400 persone. È di sabato 17 novembre la notizia del richiamo di oltre 75.000 riservisti da parte del governo di Gerusalemme, in vista di una possibile ground invasion, un intervento diretto delle truppe israeliane sul suolo arabo.

Nelle giornate di giovedì e venerdì oltre 250 razzi sono stati lanciati dai territori della Striscia verso Israele: due di essi hanno raggiunto le zone di Gerusalemme e Tel-Aviv: non accadeva dal 1970. Un razzo ha invece colpito il sobborgo di Kiryat Malakhi, nella regione di Askhelon, nel sud, a ridosso del confine con la striscia, provocando tre vittime.

Le milizie di Hamas, organizzate nel braccio armato delle Brigate Ezzedin al-Qassam, hanno per la prima volta impiegato missili dalla gittata superiore ai 75 km, in grado di colpire le principali città di Israele.

Il lancio massiccio di razzi è avvenuto in risposta agli oltre 200 raid condotti dall’aviazione israeliana fra le notti di giovedì e venerdì e tuttora in corso, con esplosioni avvertite a Gaza fra le tre e le cinque di sabato mattina, ora locale.

Oltre alle tre vittime israliane, si contano almeno 39 morti fra i palestinesi. Il quartier generale di Hamas, che ospitava anche l’ufficio presidenziale di Ismael Hanyeh, leader del movimento islamico, è stato raso al suolo all’alba di sabato. Al momento dell’attacco l’edificio era vuoto.

A scatenare la risposta palestinese è stato l’assassinio mirato del capo militare dell’organizzazione Ahmed al-Jabari, avvenuto mercoledì 14 novembre, colpito assieme a 9 civili. Ma sin da domenica scorsa il premier israeliano Nethanyahu aveva annunciato una probabile ritorsione militare nei confronti di Hamas, affermando che l’uccisione del comandante palestinese è «l’inizio di una campagna che ha l’obiettivo di eliminare i miliziani di Gaza».

L’Alto Rappresentante UE per gli Affari Esteri Catherine Ashton ha condannato i lanci di missili da parte di Hamas, premendo al contempo su Israele affinché la risposta israeliana sia «proporzionata» ed eviti ulteriori vittime civili.

A nulla sembra essere servita inoltre la mediazione di Mohammed Morsi, premier egiziano, che venerdì ha visitato personalmente i territori di Gaza. L’Egitto è l’unico paese della regione che possa esercitare una certa influenza sui vertici di Hamas, anche se timori sono stati espressi sull’appoggio che le milizie salafite egiziane dei Fratelli Musulmani potrebbero offrire ai combattenti palestinesi.

Abu Mazen, presidente della Cisgiordania Palestinese e leader di al-Fatah, che in passato era stato duramente critico nei confronti di Hamas, ha dichiarato che «il momento è quello giusto per una riconciliazione» il movimento estremista di Gaza «per porre fine al massacro di civili». Abu Mazen ha anche annunciato l’arrivo nei prossimi giorni del segretario ONU Ban-Ki-Moon nei territori palestinesi.

A rendere più difficile prevedere l’evoluzione della crisi sono inoltre fattori sia interni che esterni ad Israele. Il 22 gennaio prossimo si terranno nello stato israeliano le elezioni politiche: evento che spinge molti vertici della coalizione guidata dal Likud, partito nazionalista conservatore,  alla cautela. Un’operazione militare alla vigilia del voto introdurrebbe un elemento di rischio non controllabile e potenzialmente dannoso. Secondo quanto riferito inoltre dal quotidiano ebraico Haaretz, l’operazione a Gaza potrebbe aprire la strada per un futuro intervento in Iran, al momento principale minaccia alla sicurezza ebraica.

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