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In gita alla Certosa (non la Galbani)

Mentre si viaggia a bordo dell’S13 diretto a Pavia, passando per la stazione di Certosa, la penultima della tratta prima di arrivare a destinazione, la si scorge da lontano che si innalza maestosa, immensa, al di là di una cinta muraria apparentemente impenetrabile che la rende inaccessibile dalla strada. Per arrivarci bisogna infatti costeggiare la fortificazione camminando in mezzo ai campi inariditi per una ventina di minuti; aggirare le mura da un lato proseguendo su uno stretto sentiero sterrato dal quale è possibile ammirare il paesaggio suggestivo, tipico della campagna di quella zona. Finalmente, dopo una buona mezz’ora di camminata anche abbastanza tranquilla, si giunge in una specie di grande cortile, uno spazio arioso e ben tenuto sul quale si affaccia la protagonista della storia (in tutti i sensi). Eccola la famosa Certosa di Pavia, luogo di culto, ma anche meta per i turisti in visita nella pianura padana che di sicuro possiede non poche risorse. La Certosa è una di queste. Ma ciò che stupisce è che, nonostante già all’apertura alle 14.30, fuori dal portone principale si raduni un folto gruppo di visitatori, non sono poi molte le persone che ne conoscono l’esistenza o la storia, le origini.20160317_143114

Forse nemmeno chi vive in queste zone è mai stato in visita in questo magnifico e pacifico luogo sacro o, perlomeno, quasi sicuramente più della metà degli studenti universitari che tutti i giorni ci passano davanti per recarsi nella ben più conosciuta Pavia non sono nemmeno al corrente della sua esistenza. Già, perché al pronunciare il nome “Certosa” è scientificamente provato che a chiunque verrebbe in mente la celebre Certosa Galbani (per intenderci, il formaggio spalmabile la cui ditta produttrice, non a caso si trova proprio nel comune di Certosa dove sorge, appunto, anche il monumento omonimo). Ai più acculturati, invece, specificando che si tratta di un luogo sacro e non di un alimento, verrà di sicuro in mente la ben più conosciuta Certosa di Parma, resa celebre dall’opera del romanziere francese Stendhal (“La Chartreuse de Parme”). Che poi, a voler ben vedere, sia storicamente che a livello di dimensioni, risulta essere meno importante rispetto a quella di Pavia. La costruzione di quest’ultima ebbe infatti inizio già nel XIV secolo per volere di Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano che aveva intenzione di farne un mausoleo personale e soprattutto effigie della propria grandezza e potenza. Il suo monumento funebre si trova proprio all’interno della chiesa così come quello di Ludovico il Moro e di sua moglie, Beatrice d’Este, morta a soli 22 anni in seguito al quinto parto finito male. In seguito furono poi gli Sforza a proseguire con i lavori di costruzione e, grazie all’operato degli instancabili certosini, la Certosa divenne ben presto la più grande in Europa.                                                                                                                                                                                                                                                                  La guida d’eccezione del viaggio alla scoperta di questo meraviglioso cimelio storico è un cordiale ed affabile monaco che si potrebbe scambiare per uno del gruppo se non fosse per la singolare tunica che indossa, di due colori, bianco e nero. Racconta avvenimenti storici e descrive le caratteristiche architettoniche della chiesa e le sue opere d’arte con naturalezza e semplicità. Tutti riescono a seguirlo, tutti capiscono. Il monaco racconta che il suo ordine, quello dei Cistercensi, si è stabilito presso la Certosa e se ne occupa da quando i Monaci Certosini si videro costretti ad abbandonarla in seguito all’apertura del monumento al pubblico. I Certosini sono infatti votati alla clausura e intrattenere relazioni con il pubblico sarebbe stato per loro impossibile. Dovettero perciò abbandonare quel luogo in cui avevano vissuto a lungo osservando le cinque regole imposte dall’ordine (silenzio, studio, lavoro, preghiera, pace) e lasciare spazio ai Cistercensi fedeli, invece, alla stessa regola dei Benedettini (la celebre ora et labora). La guida si sposta da una parte all’altra della chiesa, raccontando curiosità e aneddoti storici come, ad esempio, quello riguardante il famoso e preziosissimo trittico in avorio degli Embriachi che venne rubato e miracolosamente ritrovato; o quello che vede l’origine del famoso detto “un lavoro da certosino” nella pazienza e perizia che i monaci avevano impiegato nell’intagliare il legno stagionato per realizzare i volti dei santi con i quali decorare la zona del coro, nell’abside. Anche il pavimento si può considerare una vera opera d’arte: realizzato quasi interamente in cotto è decorato con la fantasia riportante la stella a otto punte e la scritta abbreviata GRA -CAR che sta per Gratiarum Carthusia (Certosa delle Grazie). Quando ormai sembra di aver visto di tutto, ma proprio di tutto, la porta laterale si spalanca e i raggi del Sole primaverile si fanno strada prepotentemente all’interno illuminando un ambiente la cui luminosità è generalmente data dalla fioca luce che filtra attraverso le vetrate policrome.20160317_152730

Fuori, un mondo. Si viene fin da subito introdotti nel Chiostro Piccolo, che piccolo non è, un prezioso gioiello immerso nella freschezza della natura da cui si intravede uno scorcio della chiesa con tanto di stemma visconteo in bella mostra: un angolo davvero pittoresco. Si accede al Chiostro Grande su cui si affacciano le antiche celle dei monaci certosini: sono ventiquattro nominate dalla A alla Z, una per ogni lettera dell’alfabeto corrispondente a ciascun monaco (da Padre Angelo a Padre Zeno). Il nostro “Virgilio” ci invita ad entrare in una di queste per curiosare un po’. L’ambiente è molto semplice: una piccola stanza che funge da camera da letto, soggiorno, sala da pranzo, studio; una cappellina per la preghiera personale; un chiostro in miniatura per la meditazione.

Unico punto di contatto con l’esterno? Il porta vivande attraverso il quale i monaci addetti al refettorio distribuivano il cibo agli altri direttamente nelle loro celle per evitare il contatto. Tutto l’ambiente circostante (una volta adibito a cimitero, ma in seguito all’epidemia di peste, bonificato) trasmette una sensazione di pace che accompagna gli ultimi istanti della visita, fino all’uscita, dove, ritornando nel cortile principale da cui si era entrati, si viene avvolti da un profumo di spezie proveniente dall’erboristeria della Certosa. Ah, dimenticavo: è possibile anche visitare il museo adibito a gipsoteca dove sono raccolti gessi ricalcati dalle facciate della chiesa. Il tutto, guida compresa, al modico prezzo di una donazione completamente facoltativa (sta’ al desiderio e al cuore di ognuno) volta chiaramente al mantenimento dell’intero complesso architettonico e dei monaci che ci abitano.

La Certosa di Pavia è un luogo che in tanti non conoscono e che in molti “disconoscono” (in Università sono diverse le leggende che circolano e quasi tutte finiscono col “se vai alla Certosa non ti laurei”, strano a dirsi vista la benedizione finale del monaco che augura tutto il bene, l’amore e la pace possibili ai suoi ospiti…), ma che sicuramente ha tanto, ma tanto, da offrire a chiunque abbia voglia di visitarla, di sprecare un’oretta del proprio tempo per fare qualcosa di diverso dal solito giro in centro e “acculturarsi” un po’, che poi fa anche bene (senza contare la bella passeggiata all’aria aperta per arrivarci dalla stazione). Promuoviamo questo sito di interesse storico e promuoviamo anche tutti gli altri che abbiamo la fortuna di possedere sul nostro territorio, in particolare nell’area della nostra amata Pavia e della nostra non tanto e sempre amata “Alma Ticinensis Universitas”. Magari eviteremo di fare l’ennesima figuraccia quando ci chiederanno “Hai mai visto la Certosa?” rispondendo “Quale? La Galbani??”

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Claudia Agrestino

Sono iscritta a Studi dell'Africa e dell'Asia all'Università di Pavia. Amo viaggiare e scrivere di Africa, Medioriente, musica. Il mio mantra: "Dove finiscono le storie che nessuno racconta?"

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