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Il gatto nella storia dell’arte: le sue impronte dal Medioevo

Non importa se considerati predatori, distruttori di mobili, esempi di raffinata indipendenza o semplicemente pigri animali da compagnia: se qualcuno chiedesse all’uomo del 2020 di scegliere un animale domestico è probabile che la preferenza ricadrebbe su un gatto. Secondo un’indagine pubblicata a luglio da Statista, nel 2019 il 18,3% (pari a circa 4 milioni) delle famiglie italiane ha dichiarato di possedere un gatto come animale domestico, un dato che tende a confermarsi nell’Europa continentale e che nei paesi slavi sale fino a raggiungere quasi il 50%. Inaspettatamente la situazione non è molto diversa da quella di oltre mille anni fa: il gatto è infatti sempre vissuto a fianco dell’uomo, con gli stessi rapporti di odio-amore che possiamo ravvisare oggi. Cosa è cambiato – e continua a mutare di epoca in epoca – è il nostro modo di percepire la loro presenza e di relazionarci a loro, e l’arte adempie la funzione di “lente di ingrandimento” per mostrarci i risvolti che a volte si perdono nelle pieghe della storia. Prendiamo ad esempio il Medioevo, un periodo noto per la presenza di raffigurazioni di tipo sacrale, ma non per questo manchevole di affreschi di vita quotidiana: in questo orizzonte si inseriscono numerose immagini di gatti, colti nelle pose e nei momenti più svariati, i quali però presentano un tratto in comune: l’essere…brutti.

E basta qualche immagine per rendersene conto:

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gatto_brutto_arte_moderna
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gatto_medioevo_arte_gattobrutto

I gatti delle rappresentazioni medievali erano caratterizzati da musi piccoli che sovrastavano corpi schiacciati e irrealistici. Questo non è dovuto alla scarsa abilità dei disegnatori, ma è qualcosa di assolutamente intenzionale: soprattutto nell’Europa centrale il felino è stato colpito da una fama fortemente negativa a causa dell’influenza della cultura cristiana, che permeava ogni strato della società: le motivazioni principali sono il suo successo nel mondo pagano e l’associazione all’elemento femminile, con cui condividono fascino e delicata sensualità: componenti decisamente impopolari in quel periodo, in quanto ricondotte alla figura di Eva, ritenuta responsabile dei mali dell’umanità. 

E pensare che simili ragioni costituivano proprio i punti di forza dell’animale nel mondo antico, soprattutto in quello egizio, dove i gatti non erano solo apprezzati come cacciatori di roditori altrimenti dannosi per le scorte alimentari, ma addirittura venerati e considerati immanenti rappresentanti di divinità: nella versione femminile si ricorda la dea leonessa-gatta Bastet (protettrice delle donne in gravidanza e della famiglia), mentre il gatto (maschio) simboleggiava il dio sole Ra e allo stesso tempo ne era il difensore. Sono frequenti inoltre le rappresentazioni del Grande Gatto di Eliopoli, intento ad uccidere il serpente Apopi per proteggere l’Albero della conoscenza e della vita eterna: l’animale si configura quindi come portatore di ordine ed emissario del potere divino.

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Iconografia del Gatto di Eliopoli e dell’uccisione del serpente Apopi,
Papiro di Hunefer, British Museum, Londra

Erodoto, storiografo greco del V secolo a.C., nelle sue Storie (libro II, paragrafi 66-67) ci racconta che se un gatto periva di morte naturale i padroni si radevano un sopracciglio in segno di lutto e provvedevano all’imbalsamazione, di cui si hanno felici riscontri nelle evidenze archeologiche: questo era un trattamento solitamente riservato a sovrani e membri della corte regale, simbolo quindi di assoluto rispetto.

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Esempio di gatti imbalsamati

Nel mondo medievale ci troviamo invece di fronte a una concezione del mondo molto diversa, che vede ogni creatura come una manifestazione del divino e in ogni caso creata in funzione dell’uomo: sebbene i gatti fossero indispensabili per le incombenze della vita quotidiana e usati per prevedere il meteo e le visite inattese, la loro capacità di vedere e muoversi nell’oscurità e il loro carattere schivo erano sufficienti a bollarli come diretti emissari diabolici.

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Nelle raffigurazioni possiamo vedere immagini di gatti deformati o con smorfie accentuate e antropomorfe: essi dovevano fungere da bestiale controparte alla controllata razionalità umana, che si manifestava nei dipinti con una tendenza all’inespressività. Un interessante dettaglio si nota nei codici trascritti all’interno dei monasteri: tra le righe dei più svariati testi fanno capolino esilaranti miniature di gatti intenti a leccarsi le parti intime, probabilmente schizzi dettati dalla noia che però danno vita a uno spaccato dove il realismo quotidiano emerge in maniera dirompente.

I gatti avranno successo anche nell’arte rinascimentale, moderna e contemporanea come figure continuamente elaborate e reinterpretate. Un esempio recente è l’opera dell’artista australiana Vanessa Stockard, che si distingue per l’originale scelta di inserire un piccolo gatto in ogni dipinto, adottando come modello i suoi tre felini domestici.

Vanessa alterna copie dei più famosi quadri della storia dell’arte arricchite da un tocco personale a prodotti di propria ispirazione, con il risultato che persone e oggetti sono ipercaratterizzati e dotati di nuovo spessore: attraverso le minuscole figure feline, sapientemente camuffate e armonizzate, lo spettatore assume la prospettiva dell’autrice e dà una nuova interpretazione al soggetto generale, di cui l’animale costituisce la componente caratteriale e l’espressione dell’anima

Attraverso la rappresentazione dei gatti l’uomo ci parla dunque di sé, rivelando paure, sospetti, credenze e dando sfogo alla propria immaginazione, arrivando a ottenere effetti di sconvolgente – e, ammettiamolo, esilarante – bestialità così come stupore e novità: insomma, qualsiasi sia il ruolo che i gatti ricoprono, la loro felpata presenza alle spalle dell’uomo non passa mai inosservata. 

Maria Bovolon

Maria Bovolon è nata il 4 maggio 2000 a Legnago. Laureata triennale in Lettere Classiche, è ora iscritta alla magistrale di Storia Globale delle civiltà e dei territori presso l'Università di Pavia. È alunna del Collegio Ghislieri.

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