Sport

Game over ad Auschwitz. L’unica sconfitta nella vincente carriera di Arpad Weisz

di Simone Lo Giudice

 

16 aprile 1896 – PROLOGO
Fischio d’inizio della vita di Arpad Weisz. L’Ungheria meridionale di fine Ottocento gli fa da balia, mentre la cittadina di Solt lo culla: Arpad è l’anima pallonara che due ebrei ungheresi hanno appena regalato al mondo. La fanciullezza vola via al ritmo di un ragazzino che si invola sull’erba: perché lo studio può aiutare a vivere meglio, ma niente a che vedere con lo sport, unico sinonimo di vita vera.

Carriera da calciatore (1922-1926) – PRIMO TEMPO
Tutto d’un fiato e sempre di corsa, il bambino Arpad è diventato il signor Weisz: la Budapest calcistica dischiude le braccia per accoglierne le gesta. E’ un ventiseienne professionista, ruolo ala sinistra, futuro cosmopolita. Già. Perché l’esperienza ungherese (al Torekves) fa spazio a quella cecoslovacca (al Maccabi Brno), prima di sbarcare sulla penisola italiana (al Padova prima e all’Inter poi). Arpad è un giocatore sfiorito (complice un grave infortunio), ma Weisz è un allenatore pronto a fiorire sull’erba nostrana.

Carriera da allenatore (1926-1940) – SECONDO TEMPO
Arpad esporta con sé le virtù dell’uomo provinciale: culto del lavoro, preparazione teorica e rigore pratico. Perché quando hai pochi mezzi a disposizione, non puoi che ricorrere alla forza delle idee. Apprendistato in Sud America (a spasso per Argentina e Uruguay) per poi ritornare in Italia: sarà proprio Weisz a firmare il titolo nazionale interista 1929-30, prima di apprendere stralci di dialetto bolognese a bordo di una duplice vittoria (due titoli nazionali nel biennio 1935-37). Arpad si affermò come perito calcistico della sua epoca. L’allenatore magiaro calcolò tutto nei minimi dettagli, non si lasciò mai sfuggire niente sull’erba: tranne quel gennaio 1939 sul cemento. Tempo di leggi razziali fasciste e la volontà mussoliniana messa nero su bianco: la famiglia Weisz deve lasciare Bologna! L’allenatore Arpad si alza dalla sua amata panchina, prende per mano la sua famiglia (dalla moglie Elena ai figli Roberto e Clara) verso un futuro ancora possibile: la Francia prima (pochi mesi sotto la Tour Eiffel) e l’Olanda poi (nel piccolo paese di Dordrecht). Dai “Paesi Alti” della vita serena ai Paesi Bassi della vita inquieta. Eppure Arpad non si arrende: mentre il micromondo europeo ripete il sermone nazista fino allo stordimento, lui prova ad andare avanti con la sua famiglia (nel privato) e sulla sua panchina (nel pubblico). Weisz prende per mano un club sospeso tra storia longeva e palmares impalpabile: due piazzamenti consecutivi al quinto posto in classifica, prima che l’epidemia nazista si diffondesse anche qui. Dalla messa al bando del Weisz allenatore (29 settembre 1941) all’arresto della famiglia Weisz (2 agosto 1942): è l’inizio della fine. Prima tappa: campo di lavoro di Westerbork, fino al 2 ottobre 1942. Seconda tappa: il treno diretto ad Auschwitz, trainato da quella locomotiva che punta alla morte. Cosel è lo snodo ferroviario verso i numerosi sottocampi di lavoro che punteggiano l’Alta Slesia: qui scendono gli uomini abili al lavoro, sul treno restano tutti gli altri. Arpad da un lato, Elena e i figli Roberto e Clara dall’altro: la famiglia non esiste più, perché l’odio nazista ha sconfitto l’amore ebraico. Per la mamma e i due figlioletti non ci sarà scampo: i fantasmi ebrei scendono dal treno, i cani tedeschi ringhiano, per le SS ogni vita è solo una riga nera su una pagina bianca. C’è un pasto caldo ad attendere i passeggeri (prima), mentre l’asciugamano e il sapone (poi) fanno da corredo a quella scritta che giganteggia sulla parete della camera a gas: “lavatoio”. L’ennesimo inganno nazista, il più vigliacco, ma almeno l’ultimo.
31 gennaio 1944 – EPILOGO
Fischio finale della vita di Arpad Weisz. Il suo fisico da atleta lo ha esposto al peggior male: una resistenza pressoché infinita ai lavori forzati. La bilancia bellica sta per condannare la Germania hitleriana, ma Arpad è un uomo azzerato: l’allenatore più grande dell’epoca ha i capelli rasati e indossa un pigiama sudicio, con i piedi piantati nel fango dopo aver vissuto sull’erba. Stamattina non ha risposto all’appello delle guardie, non si è fatto trovare sull’attenti. Il fischio dell’arbitro nazista ha sospeso la partita tra Weisz e la sua vita: come se fosse legittimo stabilire arbitrariamente cosa sia un uomo, come debba vivere, per quanto tempo lo debba fare. “Game over ad Auschwitz”: la partita è finita, nessuna speranza per Arpad e per il popolo ebraico. Il boia tedesco ha fischiato.

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