Gabbani e il post-moderno al Festival di Sanremo

Gennaio, pronti via, ed è subito Festival di Sanremo! Lo scorso anno aveva trionfato Francesco Gabbani, che con il suo tormentone Occidentali’s Karma aveva portato al successo un brano con un testo decisamente poco convenzionale, soprattutto per gli standard dell’Ariston.

Come ha notato il linguista e studioso di canzoni Lorenzo Coveri, la canzone italiana è in realtà un grande trasmettitore culturale dal punto di vista linguistico, un vero e proprio «serbatoio di memoria collettiva che ci fa sentire tutti, aldilà delle differenze […], parte di una medesima comunità». La riprova di questo si può osservare anche nel Festival di Sanremo, nato nel 1951 (quella di quest’anno è l’edizione numero 68), vero e proprio rito annuale della cultura popolare italiana, che non è tanto sordo alle novità quanto potrebbe sembrare, pur mantenendo un’impronta sostanzialmente conservatrice (basti pensare al lessico ricorrente nelle canzoni, come la parola amore, la quale dal 1951 al 2001 compare ben 1994 volte, e ha ancora 32 occorrenze nei testi dell’edizione 2016).

Soffermandoci sugli aspetti linguistici del testo di Gabbani (co-firmato da Fabio Ilacqua e Luca Chiaravalli), il cantautore carrarese prosegue sulla falsa riga di uno stile che aveva già trionfato all’edizione precedente di Sanremo (quello dei giovani però): Amen (testo di Fabio Ilacqua) è un brano costruito con una commistione linguistica spinta al limite del citazionismo, in cui coesistono frammenti biblici («viveva in armonia con gli uccelli del cielo ed i pesci del mare / la terra spontanea donava i suoi frutti in abbondanza»), esclamazioni religiose («Amen»), canzoni nazional-popolari a sfondo politico («E allora avanti popolo»), fino a citazioni di Ernest Bloch («l’utopia ci salverà») e molto altro.

Ricetta che vince non si cambia: Gabbani e company rimettono in gioco gli stessi ingredienti nel testo di Occientali’s Karma, che è una vera e propria commistione linguistica. Parole di lingue vere e presunte si mescolano tra loro, a partire dal genitivo sassone maccheronico del titolo («Occidentali’s Karma»), fino ad arrivare al sanscrito (karma, matra, namastè), al greco di Eraclito panta rei, in rima con l’inglese «singing in the rain», per altro famosa citazione di una canzone degli anni ’20. Plurilinguismo e citazione hanno come prima funzione per Gabbani quella di essere proprio la ricetta magica per costruire il suo testo, privo di qualunque struttura sintattica e narrativa, ma che risulta essere un agglomerato di nonsense linguistici, filosofici e culturali. C’è in realtà un denominatore comune, che non lo stesso di Franco Battiato, autore che ha fatto diventare la commistione linguistica e filosofica un proprio personale tocco autoriale, ossia lo spingersi verso l’esoterismo e il misticismo. L’idea di fondo del brano di Gabbani non è dissimile da quella della precedente Amen, che esortava drastica: «dimentichiamo tutto con un Amen». Questa volta non si tratta di dimenticare, ma di demistificare tutte le nostre mode orientaleggianti, viste come uno degli ingredienti che concorrono alla crisi di valori dell’Occidente. Da qui l’antifrasi tra il titolo del brano e il suo contenuto, che prende letteralmente a pugni l’occidente più main-stream, senza per altro evitare di cadere in una semplificazione (o banalizzazione) tipica del linguaggio della canzone pop. La vera rivoluzione sta però nell’aver utilizzato tutto questo come una vera e propria ricetta linguistica, da mettere in pratica esattamente come fa un cuoco con i propri ingredienti. Il fine è quello di dissacrare l’ambiente del Festival, da sempre legato a canzoni d’amore ricche di tronche in fine verso, inversioni e linguaggi vetero-poetici arcaici (da Colpo di fulmine, brano vincitore nel 2007, «Che dio mi fulmini / la morte in cuore avrò!»), ma anche di rime baciate e lessico medio di impianto tradizionale (da Che sia benedetta, seconda al festival 2017: «che sia benedetta / per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta»).

Si badi bene, la novità non è di Francesco Gabbani. Nel 1996 Elio e le storie tese si classificano secondi al Festival (e vincono il premio della critica) con La terra dei cachi, brano dai toni parodici nei confronti dell’Italia e che critica in maniera non troppo sottile le usanze del nostro paese. La ricetta linguistica è molto simile a quella di Gabbani: una contaminazione di materiali linguistici disparati e differenti, che vanno a formare un testo parodico dal carattere fortemente ironico e grottesco. Si tratta del punto di arrivo main-stream di una corrente post-moderna all’interno della canzone italiana, caratterizzata da ricerche sui significanti e giochi di parole, inseriti in un tessuto di esasperato citazionismo. La corrente prende piede negli anni Novanta, soprattutto grazie ad autori come Francesco Baccini, Daniele Silvestri e Capossela, ma che solo grazie a Gabbani (anche se in parte svilita del ricco potenziale semantico) riuscirà davvero a raggiungere il cuore del main-stream, diventando una vera e propria maniera pop. Sì, perché Occidentali’s Karma è stata cantata veramente da tutti, e Gabbani ha proseguito nel 2017 a partorire brani come Pachidermi e pappagalli, in cui troviamo di tutto (dall’inglese Oh my darling, in rima con «tu mi parli», fino a Ghandi, lobby Gay, Hitler, i Beatles e il Titanic), ma anche Tra le granite e le granate, tormentone estivo in cui Dante («lasciate ogni speranza, voi ch’entrate») convive con detti latini («mente sana e corpo fatiscente»), canzoni nazional-popolari («fischia il vento e urla la bufera») e giochi fonici svariati («E state / lì dove siete / com’è che state / ci state bene / estate»).

Il post-moderno degli anni Novanta si fa maniera e diventa ricetta linguistica, lista di ingredienti per realizzare un testo che stravince il Festival, e che si pone come un punto di non ritorno. Sarà così davvero? La risposta arriverà nel Festival 2018, in cui scopriremo se prevarrà il conservatorismo, o se trionferanno le tendenze linguistiche più innovative.

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