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Fuoco, fuocherello, “Fuocoammare”: un altro Oscar che affonda

È ormai una notizia vecchia quella della scelta della critica italiana sul film da portare ai prossimi Accademy Awards, ma non per questo merita un breve articolo. E no, stavolta hanno puntato sul cavallo sbagliato. Ma facciamo un passo indietro.

Tra i papabili agli Oscar troviamo pellicole che hanno rivalutato il cinema nostrano e l’intero 2015, facendone un anno piuttosto proficuo per il cinema dello stivale. Si spazia dal celebrato, in internet, Lo chiamavano Jeeg Robot, al celebrato, dalla critica, Perfetti sconosciuti; dal vincitore a Berlino Fuocoammare, passando per Pericle il Nero, Suburra, Indivisibili, e arrivando infine a Gli ultimi saranno ultimi.

Detto questo, scremerò ulteriormente la lista e mi dedicherò a quei cavalli che hanno reali possibilità di vincere: Fuocoammare, di Risi, Lo chiamavano Jeeg Robot, di Mainetti, e Perfetti sconosciuti, di Genovese.

Il primo (di cui ho già parlato più approfonditamente qui) è un film umano, nei tempi e nelle tematiche. Il mondo è visto dal regista come relativo; sulla stessa isola, Lampedusa, convivono due realtà che sembrano distanti anni luce e invece sono a pochi passi l’una dall’altra. Il bambino, la sua famiglia, il dottore coesistono sulla stessa terra di quei migranti, altri uomini che arrivano da lontano, affrontando il peggio solo per riguadagnare il loro diritto all’umanità, all’esistenza. È dunque un tema quanto mai dibattuto e vivo nei media, uno di quei film sociali che lasciano qualcosa.

Il secondo, Lo chiamavano Jeeg Robot, è un film nuovo e innovativo per noi. Certo, abbiamo portato altri supereroi al cinema, in qualche modo; abbiamo visto l’italianissimo Dylan Dog, super eroe del paranormale, che, però, di italiano e di bonelliano aveva ben poco; come dimenticarsi di Dellamorte Dellamore del ’94 scritto dallo stesso Sclavi di Dylan, a modo suo considerabile un supereroe; è questo un film semisconosciuto ma apprezzabile, con quel suo retrogusto da serie B che, se fatto bene, non dispiace per nulla (so bad, is so good). Questa deviazione per dire che nonostante ci siano altri casi di supereroi all’italiana, quello di Lo chiamavano Jeeg Robot è il primo caso in cui si riesce a toccare vette interessanti. Una trama avvincente, degli attori d’eccezione e azzeccati nei panni non aderenti dei loro personaggi, un regista che fa del film un progetto di vita, che ci investe personalmente e ci crede tanto da sfornare un’opera che grazie al passaparola ha suscitato pareri positivi quasi all’unanimità. In un periodo storico-cinematografico in cui i cinefumetti con i superuomini in calzamaglia fanno i record al botteghino, il film di Mainetti riesce a togliere quell’odore di stantio che comincia a sentirsi nell’aria all’annuncio dell’ennesimo Marvel. Nulla da dire su quest’ultima categoria, anzi, sono il primo a finanziare col mio biglietto questo genere di intrattenimento; ma, nonostante la spettacolarità di queste pellicole, si perde via via quell’effetto sorpresa che ci ha affascinato all’inizio, le dinamiche perdono verve e appaiono sempre più prevedibili, fino ai più clamorosi flop del genere (mi sto riferendo proprio a te, Batman vs Superman, di casa DC, che comunque non cestinerei così velocemente come son pronti a fare altri). In sintesi, è un buon film, d’intrattenimento, d’esperienza, di crescita professionale del regista, una pellicola che non delude e anzi fa ben sperare anche alle produzioni in miniatura di diventare colossi.

Arriviamo cosi al terzo candidato: Perfetti sconosciuti. Un film sorprendente, spiazzante e ancora una volta realistico. Il regista grazie ad una sceneggiatura d’eccezione riesce a dilatare in maniera credibile i tempi di una cena facendo immergere lo spettatore nelle vite dei protagonisti. Potremmo dire che la trama sia banale, e in effetti lo è: amici che si ritrovano a casa di qualcuno per passare del tempo insieme. Semplice, lineare, azzarderei un “lapalissiano”, giusto per completare il trittico. Ma non è così. Non è così perché non è facile far percepire attraverso la macchina da presa lo scorrere del tempo; per decenni si sono creati artifici per far notare che le ore passavano, che le stagioni mutavano, che gli anni trascorrevano. Time-lapse del cielo che si rannuvola, lancette che corrono all’impazzata, gente che invecchia grazie alla CGI. Qua invece si fa tutto il contrario. È quasi come se fossimo al tavolo con i protagonisti, come se ci avessero offerto un posto a sedere. Magari con i popcorn ci sembrerà pure di partecipare alla cena. Il regista cattura in maniera realistica la vita tagliando i tempi morti e lasciando solo un continuo parlare, chiacchiere e chiacchiere che però non stancano, perché sembra – mi ripeto ancora una volta – di essere fra amici e lo spettatore si ritrova ad essere interessato e coinvolto nelle loro vite. Il cliffhanger finale poi ribalta l’intera visione, quasi stordisce, essendo inaspettato nell’impianto fino a quel momento portato in scena. E proprio in quell’istante, mentre attraversano il portone per tornare alle loro vite, noi ripercorriamo l’intero film sotto una nuova luce. In sintesi, si porta in scena l’inconoscibilità delle persone che, talvolta, ci è soltanto positiva; poiché, scoprendo come sono gli altri, in realtà, non avremmo più la forza di stargli accanto. È in sostanza il classico dilemma del voler sapere la verità lasciando aperta la porta alla delusione, oppure vivere nell’illusione ma felici.

A questo punto ci stiamo tutti chiedendo quale sia il senso di tutto questo. Forse la scelta migliore non è quella presa, ci sono andati vicini, fuoco, fuocherello, ma non è Fuocoammare. Il vincitore dell’Orso d’oro è sì una pellicola di tutto rispetto ed è anche chiaro il senso che la giuria vuole trasmettere con questa scelta, ovvero mostrare al mondo un argomento spinoso e quanto mai attuale. Ma contemporaneamente pecca nel comunicare all’estero il cinema italiano. Gli ultimi Oscar del nostro Paese sono stati vinti grazie a pellicole dai temi forti ma pesanti, e trasmettono, a chi non ci conosce, un’idea del nostro cinema come di qualcosa di difficile fruizione. Allontana in qualche modo il grande pubblico estero che non si può ritrovare incuriosito da quel che possiamo offrire: non c’è un vero ritorno economico e culturale per un risveglio del nostro cinema. È un film adatto alla critica, un film adatto a quei professori illuminati che vogliono far scoprire agli studenti un aspetto della storia contemporanea senza dover leggere mattoni infiniti di geopolitica; è l’inizio di una discussione interminabile sulle questioni raccontate, ma non è accattivante. Non quanto Lo chiamavano Jeeg Robot che ha dalla sua una dinamicità interessante, che porta in scena un supereroe diverso da quelli all’americana; ma anche qui ci imbattiamo in una scelta improbabile per il rapporto di silenzioso odio dell’Accademy verso questo genere, in qualche modo giustificato dallo spessore al limite del trasparente delle pellicole prodotte dalle major americane. A questo punto ci rimane Perfetti sconosciuti, che incarna perfettamente una nuova visione del rinato (?) cinema italiano, una proposta che ammicca ai lavori di Woody Allen e che può rischiare di catturare l’attenzione di un pubblico che non ha voglia di un mockumentary tanto interessante quanto pesante. È dunque tutta una questione di proporre non tanto il film vincente agli Oscar – cosa per cui Fuocoammare ha buone possibilità, data la passione della giuria hollywoodiana per i temi forti – ma di portare avanti una bandiera del cinema italiano, un simbolo di rivincita di un mercato economico-culturale che non propone solo temi di difficile fruizione, i cosiddetti “pipponi”: è tempo di mostrare pellicole che stimolano e tengono incollati allo schermo perché rendono partecipi del loro mondo.

In breve, Fuocoammare è forse la scelta facile e alla fin fine giusta, ma Perfetti sconosciuti avrebbe portato all’estero un’Italia diversa dal solito, un’Italia non di disastri, di drammi sociali, di questioni spinose, ma un’Italia fatta di gente verosimile, in un mondo tangibile e a misura di spettatore.

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