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Festival di Sanremo 2018: uno sguardo ai testi

Puntata straordinaria della rubrica sulla lingua delle canzoni, che si occupa eccezionalmente (e in anteprima) dei testi che questa sera saranno presentati in gara dai big al Festival di Sanremo. La canzone è un sinolon inscindibile di parole, musica e performance: parlare di un testo prima ancora di sentire la canzone è senz’altro un rischio; resta però certamente lecito chiedersi quale sia l’italiano e le strategie testuali privilegiate per la sessantottesima edizione della kermesse.

Nel festival di Claudio Baglioni, l’amore paradossalmente non è più la tematica principale (anche se non viene abbandonata): la parola stessa amore ha solo 21 occorrenze, contro le 32 che aveva nell’edizione 2016, e non compare neanche in nessun titolo (solo in un titolo compare il verbo amarsi, ma il testo è particolarmente originale). Nonostante la tematica preferita sia il coraggio della vita quotidiana, con diverse spinte verso l’attualità, lo stile che prevale è il sanremese classico, che Lorenzo Coveri definisce come un «genere testuale con caratteristiche proprie»: prevalgono rime baciate («Penso sempre a quello che è stato / tutto perfetto niente di sbagliato», così esordisce Non smettere mai di cercarmi di Noemi), talvolta anche assonanze o consonanze («perché ogni uomo ha un suo preciso istinto / un suo esclusivo canto», Ognuno ha il suo racconto, Red Canzian); in fine verso si prediligono decisamente monosillabi («Ci sono giorni in cui guardi indietro, e chiedi di te / a un vecchio amico a chi hai amato, e adesso non c’è», Il segreto del tempo, Riccardo Fogli e Roberto Facchinetti; «Cerco una colpa per restare qui / a vivere i ricordi, io», Senza appartenere, Nina Zilli), parole accentate («Fosse anche per cent’anni aspetterò», La leggenda di Cristalda e Pizzomunno, Max Gazzè) o infiniti («fare soldi per non pensare / parlare sempre e non ascoltare», Una vita in vacanza, Lo stato sociale); all’interno del testo inoltre troviamo ancora diffuse le inversioni («Il segreto del tempo è che tutto perdona /a chi tutto alla vita si dà», Il segreto del tempo), anche quella particolarmente tragica che coinvolge il possessivo («Soltanto gli occhi tuoi, per sempre gli occhi tuoi», Eterno, Giovanni Caccamo); non mancano infine le allocuzioni insistenti alla persona amata, rafforzate anche dagli imperativi («Tienimi stretto al buio e dimmi», Così sbagliato, Le vibrazioni). Insomma, gli ingredienti sono sempre gli stessi, ed il risultato non può più di tanto essere diverso: per dirla con Lo stato sociale, «niente nuovo che avanza».

Più generalmente la ricerca linguistica è decisamente limitata: le immagini privilegiate sono principalmente iperboli assurde e insignificanti, che spesso estremizzano modelli storici come Battisti o Gino Paoli (solo nel brano di Annalisa Scarrone, Il mondo prima di te – uno dei brani più sanremesi e più scarni dal punto di vista linguistico e testuale – troviamo «Immaginare che il mondo / scelga di girare attorno a un altro sole, / è una casa senza le pareti» e «E siamo montagne a picco sul mare / dal punto più alto impariamo a volare»); abbondano inoltre le pseudo-sinestesie, che da vaghe diventano banali e stucchevoli («averti qui / ha il sapore / dell’eternità», Rivederti, Mario Biondi), o più genericamente immagini che mescolano astratto e concreto, proseguendo quella tendenza avviata negli anni ’80, ormai abusata, e quindi privata del suo potenziale semantico originale («Sposa e sorella coprimi / di nuvole e trapunte di sogni», Il coraggio di ogni giorno, Enzo Avitabile e Beppe Servillo). Anche nei testi più impegnati, in cui le immagini sono più ricercate e più originali, resta una patina di retorica stucchevole, che tocca sia la costruzione delle immagini che lo stile: emblematico è il brano Non mi avete fatto niente, di Ermal Meta e Fabrizio Moro, in cui troviamo immagini iperboliche e decisamente stucchevoli («Cadranno i grattaceli/ e le metropolitane / i muri di contrasto alzati per il pane / ma contro ogni terrore che ostacola il cammino / il mondo si rialza / col sorriso di un bambino»).

Quest’ultimo testo resta però uno dei più curati dal punto di vista linguistico, con qualche rima significativa («Qualcuno canta forte / qualcuno grida a morte»), uno stile semplice e immediato, adatto al tema trattato («Perché la nostra vita non è un punto di vista»), con metafore dirette ma efficaci («di volti illuminati come muri senza quadri»). Tra i testi interessanti, spicca Passame er sale di Luca Barbarossa, scritta quasi tutta in dialetto romanesco, tale che sembra riecheggiare alcuni stornelli, e i pochi versi in italiano sono semanticamente connotati regionalmente e influenzati dalle strutture del parlato («Io non c’ho le parole che c’hanno i poeti / nun è robba pe’ me» – da notare il ci attualizzante). Il brano di Elio e le storie tese, Arrivedorci, pur costruito con uno stile tipico degli Eli, con un’insistenza sul significante e sulle figure di suono («Una storia unica, singolare e atipica / completamente antieconomica, a propulsione elica / una storia unica, una carriera artistica / dolcemente stitica»), sembra non avere lo smalto dei tempi migliori, anzi sembra un testo quasi forzato per l’occasione (il “presunto” addio della band dei palcoscenici). I testi più interessanti credo però siano quattro: quello de Lo stato sociale è un elenco di lavori o presunti tali, vecchi e nuovi (blogger, influencer, cuoco stellato), e con una sintassi fortemente irrelata fa riecheggiare l’attualissimo dilemma «vivere per lavorare / o lavorare per vivere» (il chiasmo tra l’altro è di eco fortemente Baglioniana); il brano di Max Gazzè, che ricorda, come ha notato Coveri, il linguaggio quasi medioevale del primo De Andrè; il brano di Vanoni, Bungaro e Pacifico, che ha probabilmente i versi più interessanti di tutto il corpus dei big («Così saremo vivi / gabbia di ossa / libero cuore / hai preso dolcezza / da ogni dolore / conservo l’infanzia / la pratico ancora»). Menzione a parte merita Almeno pensami, testo di Lucio Dalla portato in gara da Ron, che già nel suo incipit si riconosce per lo stile surrealista tipicamente dalliano, con accostamenti originali e arditi («Ah fossi un piccione / che dai tetti vola giù fino al suo cuore / almeno fossi in quel bicchiere / che quando beve le andrei giù fino a un suo piede» – da notare il che polivalente, che dà un andamento colloquiale a questi primi versi).

Ma si sa, non è necessario (e non basta) un bel testo per fare una bella canzone, per cui, questa sera tutti sintonizzati sul Festival, per vedere se effettivamente note, armonie e interpretazioni caricheranno di significati diversi i singoli testi.

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