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Festival dell’antropologia: dall’altra parte della barricata

Quando sono partita per Bologna, l’idea era quella di raccontarvi il Festival dell’antropologia giorno per giorno, una sorta di “diario di bordo”. Un po’ per la mia inclinazione al ritardo, un po’ per l’effettiva mancanza di tempo il progetto iniziale è saltato. Meglio.

A una settimana dall’evento, in cui ho iniziato questo articolo almeno una decina di volte, ho deciso di focalizzare la mia attenzione sull’organizzazione. Sono stati stimati circa 10/12 mila visitatori, centoventicinque ospiti, quasi duecento volontari, quattro festival, tre giorni con conferenze, workshop, presentazioni di libri e proiezioni di documentari dalle 9 alle 21. Questi i numeri della prima edizione del RIFestival, nato dall’esperienza dell’anno precedente. Pazzeschi se si pensa che il tutto è stato ideato da una quindicina di studenti universitari. E qui sorge la mia riflessione. Dopo l’ultimo seminario tenuto dell’eccentrico e poliedrico Franco La Cecla, c’è stato l’abituale discorso di chiusura. I ragazzi della Rete degli Universitari, associazione studentesca di Bologna, si sono presentati, ringraziato per la straordinaria partecipazione e hanno parlato della fatica, della gioia e della delusione. Già, delusione nonostante la riuscita dell’evento. Visto il successo dell’anno scorso e la volontà di rendere il festival multidisciplinare era stato chiesto al Comune di poterlo organizzare in piazze cittadine, la richiesta era stata fatta a ottobre: rimbalzati da un ufficio all’altro per sapere quali autorizzazioni e permessi fossero necessari, alla fine sono scaduti i termini per presentare la richiesta.

Il RIFestival si è tenuto: nelle aule dell’Alma Mater, con il contributo che l’Università riserva alle associazioni studentesche iscritte all’albo, con gli autofinanziamenti. Arrivati a questo punto, il trovarmi spesso dall’altra parte della barricata, l’essere tra coloro che programmano e che si scontrano con la macchina molto poco oliata della burocrazia, mi ha fatto prendere questa scelta: andare fuori tema e porre questa riflessione anche a voi lettori. La mia esperienza pavese, universitaria e non, mi vede più volte al mese negli uffici comunali, in SIAE per chiedere permessi e persino in Questura. Le procedure per richiedere gli spazi sono spesso poco chiare e cambiano all’incirca tutti gli anni. I costi si presentano spropositati e le agevolazioni non coprono quasi mai l’effettivo bisogno. Eppure, nonostante questo, le iniziative vengono portate a termine. Non senza complicazioni, come avrete capito.

La Rete degli Universitari, nonostante le complicazioni, ha dato vita ad un percorso che per noi fruitori è durato tre giorni, per loro quasi un anno intero. Un percorso aperto anche a chi all’antropologia è poco avvezzo; un argomento “MIGRAZIONI: movimenti, sviluppo, integrazioni” affrontato anche dal punto di vista storico, comunicativo e politico; ha accompagnato i visitatori per gradi, strutturando il festival in modo da dare le basi e le conoscenze per poter affrontare le successive giornate in cui si entrava nel vivo delle materie; ha invitato relatori competenti e in grado di adottare un linguaggio accessibile a tutti (basti pensare che il primo incontro è stato: “Che cos’è l’antropologia” con Adriano Favole, docente a Torino presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società). L’obiettivo del progetto, ovvero “portare avanti un’idea condivisa, una prospettiva che possa andare oltre la narrazione stereotipica del fenomeno migratorio”, risulta raggiunto. La larga partecipazione di persone proveniente da altri atenei, di insegnanti, mediatori culturali, di persone che ogni giorno nel concreto si occupano di integrazione e che non risultano più strettamente collegati al mondo accademico, ha dato ragione agli organizzatori. Ha messo in luce come una buona idea, un buon progetto, indipendentemente dalle difficoltà riesce a conquistare degli ottimi risultati. Esempi come questi si hanno ogni giorno laddove la partecipazione attiva degli studenti dà vita a progetti in cui sempre più spesso si cerca di integrare vita cittadina e vita universitaria. Le due realtà infatti, dovrebbero essere concepite insieme e mai come compartimenti stagni. Gli studenti hanno uguali diritti e doveri dei cittadini presso le città in cui studiano. La volontà di arricchire, dovrebbe essere supportata e non da bloccata con norme sempre più macchinose.

Quindi, grazie a chi ogni giorno dedica qualche ora del proprio tempo per rendere l’Università non un mero contenitore di conoscenza ma un luogo di scambi. Poco importa che questi scambi avvengano attraverso un giornale, un festival o una rassegna cinematografica, l’importante è che ci siano. Grazie, perché la riuscita non è mai scontata ma l’impegno, in qualche modo, è sempre ripagato.

Ci si vede il prossimo anno a Bologna.

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