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Favola di “santi” e di uomini: “Lazzaro felice”

Il suono dolce e lamentoso di una zampogna sveglia di notte i bimbi che dormono, le ragazze si contendono con gli adulti la lampadina della cucina per illuminare la stanza, mentre fuori la luna illumina il coro. Una ballata d’altri tempi la pellicola di Alice Rohrwacher, premiata a Cannes per la miglior sceneggiatura, una ballata su sentimenti che non appartengono né a questi tempi né ad altri, su una bontà primordiale, e quasi premorale, che gli uomini forse hanno visto ma ora dimenticato.78135_ppl

Il personaggio di Lazzaro (un bravissimo Adriano Tardiolo al suo esordio cinematografico) è uno spirito prodigo fin dalle primissime scene: suona la zampogna, recupera una gallina scappata in cucina, “sposta” la nonna su e giù per la casa, bada al lupo di notte. Ma Lazzaro sembra appartenere a un mondo e un tempo lontanissimi, è un “santo” che vive tra gli uomini e gli animali, totalmente estraneo a molte dinamiche umane. A tal proposito, emblematica e bellissima è la scena nella piantagione dove lo vediamo correre, di qua e di là, mentre un coro alternato di voci chiama il suo nome, quasi lo invoca, a volte sussurrando e a volte strillando.


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La fiaba della Rochwacher racconta la vita dell’Inviolata e dei suoi abitanti, i mezzadri che lavorano nella piantagione di tabacco della marchesa Alfonsina Della Luna (Nicoletta Braschi). Pochi sono i riferimenti temporali e spaziali a disposizione dello spettatore: l’accento marcato del centro Italia dei contadini è il nostro unico riferimento geografico, così come il brano Dreams will come alive (1994), dei 2 Brothers on the 4th Floor, è l’unico riferimento temporale. In questo luogo lontano dagli altri uomini, quasi creato a puntino dalla regista, “bene” e “male” hanno un significato diverso. Per i contadini il bene è la loro quotidianità e l’unico male che semmai commettono è l’innocenza, un dolce senso di infantilità. Così vediamo i bimbi che sputano sulla ricotta da servire alla marchesa perché non possono assaggiarla, e tutti simulare il sibilìo della “serpe velenosa” (la padrona). Lazzaro è, invece, un giovane buono senza mezzi termini a cui è quasi difficile credere e abituarsi, ma per nulla fuori posto all’Inviolata, dove la sua santità è delicatissima, quasi “di casa” nella magistrale architettura della cineasta toscana.

Discorso diverso va fatto per la seconda parte della pellicola dove, dopo anni, ritroviamo i vecchi personaggi ad abitare ai margini della città, a vivere come piccoli criminali di strada cercando di rivendere vecchi oggetti della marchesa presi dalla sua villa all’Inviolata. I mezzadri del passato si ritrovano poveri, ancora, anche da liberi. Sono poveri in mezzo agli uomini ora, a fare i conti con una moralità più elaborata dalla quale imparano a difendersi e ad attaccare. E ritrovano Lazzaro, lo stesso di un tempo, in un luogo più cupo e più grigio. Molto bella la fotografia di Hélène Louvart che utilizza sapientemente le fonti naturali della luce: il sole e la roccia viva dell’inviolata e le nubi, il grigio sporco delle baraccopoli cittadine. Con Lazzaro ritorna un po’ della magia di un tempo ma a fatica: ritrovano piante buone da mangiare ai cigli della strada, Tancredi, qualche momentaneo desiderio di tornare all’Inviolata, ma tutto avvolto da un forte senso di diffidenza. La percezione della bontà degli uomini comuni è cambiata in città, mentre quella di Lazzaro è rimasta immutata tanto da farlo sembrare, ora, quasi ultraterreno. La Rohrwacher, però, ci fa intravedere ancora gli spiriti di un tempo, portando sullo schermo personaggi quasi biblici che, mentre donano il vassoio di dolci a Tancredi, ricordano i magi in visita al bambinello. E Lazzaro, invece, che in lacrime di fronte a un albero piantato nel cemento, scopre l’infelicità per la prima volta.

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La pellicola diventa più simbolica nella seconda parte, e forse anche meno facile da digerire. La poeticità ricercata dalla Rohrwacher, perfetta nella prima parte, si spegne nella seconda rendendo la fiaba di Lazzaro meno immediata: la sottile magia che avvolge l’Inviolata viene ridotta poi a più episodi poco plausibili e immotivati. Lazzaro felice è la storia di una santità semplice, animale più che umana, priva di miracoli ma fatta di una bontà innata che può essere ritrovata. E’ una santità alla portata dell’uomo comune e della sua quotidianità, che anima Lazzaro senza negarsi agli altri, raccontata da Alice Rohrwacher come una fiaba realistica e magica che – con qualche rischio di troppo, ma mai eccessiva – regala al cinema italiano una parabola moderna che ha come luogo ogni luogo e come tempo ogni tempo.

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