“Fabula rasa” di Vito M. Bonito: la nascita e l’estinzione
pèue al massacro
mio gioco
pèue che sbrana
il mio poco
residuo di me
simulacro
mio pressappoco
tu mangiafuoco
pèue a me che t’invoco
fai bianca paura
dolore di fiamma
tremare
nel mio melodramma
Fabula Rasa, uscito lo scorso anno per la Collana CromaK di Oèdipus, è la mobile e antilirica trascrizione di un dialogo concretissimo, eppure impossibile; è un racconto in versi, una favola, appunto. Una favola che assume i movimenti del teatrale, portando in scena le vivaci battute di due interlocutori profondamente in contatto, nonostante – o forse proprio in virtù del fatto che – si trovino ai poli opposti della loro parabola esistenziale; legati dalla comune appartenenza a un non-luogo (rispettivamente a un non più e a un non ancora) e dal comune utilizzo del linguaggio, della parola, come mezzo di comunicazione universale in grado di porre in dialogo senza sforzo – attraverso le vie dell’ironia e dell’accostamento di termini lontani – un aldilà e un aldiqua.
Vito M. Bonito (1963) vive a Bologna. Ha pubblicato, in ambito poetico, la plaquette La bambina bianca (Derbauch Verlag, 2017); Soffiati via (Il Ponte del Sale, 2015, Premio nazionale Elio Pagliarani 2015); Luce eterna (Galerie Bordas Venezia, 2012); Fioritura del sangue (Perrone, 2010); Sidereus Nuncius (Grafiche Fioroni, 2009); La vita inferiore (Donzelli, 2004); Campo degli orfani (Book, 2000); Il segretario (Zona, 2000); A distanza di neve (Book, 1997). È presente nelle antologie Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli (Sossella, 2005) e Poesia contemporanea. Quinto quaderno italiano, a cura di F. Buffoni (Crocetti, 1996). In ambito critico sono usciti i volumi Le parole e le ore. Gli orologi barocchi: antologia poetica del Seicento (Sellerio, 1996); L’occhio del tempo. L’orologio barocco tra letteratura, scienza ed emblematica (Clueb, 1995); Il gelo e lo sguardo. La poesia di Cosimo Ortesta e Valerio Magrelli (Clueb, 1996); Il canto della crisalide. Poesia e orfanità (Clueb, 1999); Pascoli (Liguori, 2007). È tra gli autori dell’antologia Poesia del Novecento italiano (vol. II), a cura di N. Lorenzin (Carocci, 2005) e Finisterrae. Scritture dal confine (Carocci, 2007). Ha scritto saggi su Beckett, Artaud, De Signoribus, la Socìetas Raffaello Sanzio, sul cinema di Aristakisjan, di Herzog e Korine.
«Si scrive già morti. Si scrive ai morti, ai non-nati. Solo questo ho cercato di fare. Chi scrive si dà a morire nella lingua e ascolta la lingua mentre muore» scrive Bonito nel commento apparso sulla rivista online «L’Estroverso». La Fabula della sua ultima pubblicazione, di questo «telegramma / soprannaturale», nasce infatti dall’immaginario dialogo instaurato da un padre già morto con una figlia ancora non nata, o, meglio, dal contrario. È la bambina bianca infatti a tenere il pugnale, a condurre le danze, a prendere irriverentemente in giro la figura paterna e a smontarne i miti, riportandoli, con feroce giocosità – come quella possibile solo all’ingenuità e al candore dell’infanzia – alla loro dimensione più tangibile; è lei ad apparecchiare l’inferno al padre.
ti ho vista!
In sogno che ridevi
gli occhi già nell’ulteriore
come a dire
in così tanto cieco amore
perché non mi raggiungi
qui giammai si muore
*
le agonie le afasie
le notturne
aritmie
sei vivo sei morto
nessuno lo sa
il passato il presente
ciò che sarà
sono fiato di niente
ubbie senza forma
vento da cui non si torna
esser non esser
chi viene chi andrà
la luce del corpo
l’oscurità
non so dirti
se è tutto un inganno
questo tuo affanno
mio caro papà
se capogiri serali
o babilonie
della tua anzianità
vedo però
che porti gli occhiali
e parli solo
dell’aldilà
La teatralità, dicevamo: la rappresentazione del dramma di una paternità caduca e, più ampiamente, della drammatica certezza che «ogni nato è certamente un morto». Ma forse anche un melodramma, nella sua accezione più etimologicamente corretta: dramma e melos, azione scenica e canto, musica. Forte è infatti la componente musicale in Bonito, la ritmicità dei versi brevi e cantilenati. Quasi una filastrocca, dunque, un’oltraggiosa e divertita cantilena che tutto svuota, erade, per ricominciare dal principio. Ed è nel candore di questo spazio svuotato, bianco, come innevato, in questo luogo inesistente, che non è più e non è ancora, che risuona la voce, la parola, il richiamo: soltanto sul terreno del sogno, della visionarietà allucinata, è possibile l’incontro e il guardarsi e il continuo interrogare di una tensione intimamente vocativa.
non so come chiamarti
come sei
quando mi parli
vieni e vai
sento pèue
dal profondo
pèue come un canto
una danza un girotondo
pèue ti rispondo
(la mia bocca è qui
nel respiro parla e tace)
e bianca poi chi è
bambina neve
fiamma lieve
che scrivi scrivi
ma non c’è
«L’infanzia è madre della memoria e dell’attesa, madre indicibile della parola» scrive Bonito in Campo degli orfani (Book, 2000). Pèue è infatti la prima parola, il suono prenatale e pregrammaticale, simbolico senhal di un’interlocutrice che è pre-esistente e perno di un incontro-scontro reso possibile proprio grazie al mezzo della parola. Il linguaggio poetico di Fabula rasa esprime quindi anche in sé, inevitabilmente, la natura contrastiva di questo dialogo, sul piano dei contenuti e su quello del registro, mediante l’accostamento di elementi distanti tra di loro. Accostamento che è sempre volto al raggiungimento di un’irriverente autoironia, a sua volta mezzo retorico privilegiato per l’assunzione di una posizione distanziata, sopraelevata, metalinguistica, forse, rispetto al concreto, al letterale, al tangibile. Uno straniamento di fondo che dunque riporta sempre al di qua, alle cose.
tu parli sempre i morti
l’ardore le manine
l’iddio dei non-risorti
tu che non dormivi
bruciati gli occhi vivi
sì mi piace va bene
ho capito è mistica abrasione
zero verticale
perpetua liturgia
di sangue e di oblazione
promettimi però
che in tanta adorazione
in tale vertigine
abissale
la guardi anche con me
la tua televisione
siffatta teologale
magari
dopo colazione
scegli pure tu
il canale
Il contrasto, dunque; il contrario, anche. L’incontro tra non-luoghi reso possibile in fondo proprio per la natura impossibile di questi, per la loro non-esistenza («non esiste la vita / e neppure la morte»), e la fine che ha inizio nel proprio principio, la nascita che porta in sé la propria estinzione («sono il tuo scaccomatto / lo schianto / l’autoritratto / di te a testa in giù»). La figlia, dunque, che dà scaccomatto al padre, come (ancora da «L’Estroverso») «la poesia dà sempre scaccomatto al poeta. Ogni pretesa di sopravvivere alla poesia (e alla figlia) è ridicola. […] Perché la poesia è melodrammatica, mistica, dispettosa alfine. Ride infinitamente di noi. Ci spasima e meravigliosamente ci uccide».
Link all’articolo di «L’Estroverso»: https://www.lestroverso.it/dallinizio-vito-m-bonito/