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Europa da ripensare, tra emergenza umanitaria e politiche controverse

Unione Europea. L’hanno definita Confederazione, Sistema di governance multilivello, stato regolatore e anche formazione politica neomedievale. Secondo Paul Valèry, invece, si tratta di un ” piccolo promontorio del continente asiatico”, mentre Grillo l’ha ribattezzata come “una nave dei folli, senza futuro”.

Queste sono solo alcune delle numerose definizioni proposte nel corso degli anni per identificare l’Unione Europea. Ma oggi più che mai per molti, questa è un’Europa da ripensare.
I vari attori che hanno operato nel sistema politico europeo, sono stati protagonisti di diverse narrative riguardanti il processo d’integrazione. (Ovvero processo d’integrazione industriale, politico, legale ed economico degli stati membri).
Secondo i principi che hanno ispirato i padri fondatori, l’UE avrebbe dovuto essere una comunità di paesi liberal-democratici in grado di agire collettivamente attraverso un sistema decisionale istituzionalizzato.
Eppure spesso il processo d’integrazione consiste nel trasferimento di autorità a un ente sovranazionale, dotato di una propria architettura costituzionale e strumenti di produzione di politiche sui generis.
Il rapporto tra questi due modi d’intendere l’integrazione europea ci permette di comprendere le difficoltà che oggi l’UE affronta per bilanciare le forze disgregatrici che operano al suo interno. Tra i fattori disgreganti non di poco rilievo vi è quello della gestione del fenomeno dell’immigrazione di massa, diventato una specie di “capro espiatorio” per motivare questi cambiamenti. Nel frattempo, l’UE è diventata il simbolo della distanza tra il popolo e la classe politica.

Il tutto è sfociato in una crescente ostilità nei confronti dei migranti, dalla quale numerose forze politiche populiste/nazionaliste traggono ispirazione per la propaganda, intercettando i timori dell’elettorato. Il risultato finale è la paura diffusa tra chi deve prendere decisioni politiche, e la difficoltà da parte dei cittadini (soprattutto per coloro che fanno parte del ceto medio/basso, e vivono in aree urbane interessate in modo particolare dall’alta presenza di migranti) ad accettare la crescente presenza di stranieri sul territorio, rendendo l’integrazione sempre più difficile.

I numeri dell’immigrazione

Nel 2015 l’affluenza migratoria ha raggiunto livelli mai registrati in precedenza. L’aspetto più caratteristico della crisi è l’altissimo numero dei richiedenti asilo, (più di 700mila secondo Eurostat), provenienti soprattutto dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Eritrea e dal Kosovo. Fuggono dalla guerra, dalla persecuzione politica e dalla povertà.

Quest’anno gli arrivi si sono concentrati sulla costa mediterranea orientale e balcanica, con oltre 710mila ingressi registrati e un aumento notevole degli attraversamenti illegali, soprattutto lungo il confine con la Turchia (circa 70mila); e rimane altissimo il numero d’ingressi irregolari di coloro che s’imbarcano dalle coste libiche. L’UE tutt’ora non riesce ad adottare una politica sull’ immigrazione condivisa da tutti gli stati membri. Questo perché il nesso individuato tra i paesi coinvolti nei recenti attentati terroristici e l’esodo dei rifugiati non rende più probabile un intervento comune, ma alimenta la distanza tra le opinioni pubbliche dei paesi membri.  Ad aggiungere rilievo alla criticità della situazione sono gli 1,7 miliardi di euro in più, rispetto al budget comunitario previsto per gestire l’accoglienza dei rifugiati.

(dati registrati tra il 2014-2015 fonte Eurostat).
La fragilità dei sistemi socio economici europei e l’inasprimento delle politiche nazionali nei confronti dell’immigrazione.

Il trattato di Schengen e il trattato di Dublino sono elementi strutturali dai quali dipende il funzionamento dell’Unione Europea, ed entrambi si sono rivelati vacillanti di fronte allo stato di emergenza umanitaria. Innanzitutto, a “risentirne” è stato il trattato di Schengen (che consente la libera circolazione tra gli stati comunitari), attualmente sospeso in Austria (dal 16 novembre 2015) per diminuire l’affluenza di ondate migratorie. Non solo limita la possibilità di muoversi all’interno dell’UE, ma lede uno dei traguardi più significativi dell’integrazione da un punto di vista simbolico, e una delle manifestazioni più concrete dei principi di cittadinanza europea.

Anche il trattato di Dublino, fin dall’entrata in vigore nel gennaio 2014, è stato oggetto di aspre critiche da parte di operatori e organizzazioni internazionali (fra le quali l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati e il Consiglio d’Europa). Secondo quanto sancito dal regolamento, il sistema stabilisce una gerarchia di criteri per l’identificazione del paese membro dell’UE responsabile dell’esame della domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino terzo o apolide. L’obbiettivo è assicurare ai rifugiati l’effettivo accesso alle procedure per la concessione del diritto d’asilo, impedire che la richiesta venga inoltrata a più stati membri e infine evitare lo spostamento dei richiedenti da un paese comunitario all’altro. In particolare si cerca di far esaminare la domanda da un paese che già ospita un famigliare del richiedente; in alternativa la responsabilità è esclusiva dello stato membro dove il richiedente ha compiuto il primo accesso nell’UE. Il trattato, però, ha dimostrato avere due grandi punti deboli. Soprattutto l’eccessivo ritardo nel controllare le domande dei rifugiati, che in alcuni casi ha portato a detenere i migranti irregolari per più di otto mesi; la situazione oltretutto è stata aggravata dal divieto di reingresso di 5 anni nei paesi di origine. Inoltre molti stati collocati ai confini esterni dell’Unione Europea non erano in grado di garantire la tutela dei diritti dei richiedenti asilo, il che ha causato una forte concentrazione di migranti in Italia e Grecia, perché si affacciano sul Mediterraneo, e Ungheria e Croazia che hanno risentito dell’esposizione sulla rotta balcanica.

I provvedimenti a livello europeo non essendosi dimostrati idonei hanno causato l’inasprimento delle politiche nazionali, che spesso sfociano in xenofobia e nazionalismo, soprattutto nei governi maggiormente esposti agli effetti dell’immigrazione. Questi disagi si trasformano in sfiducia da parte delle forme di rappresentanza, diventando lo strumento privilegiato dei partiti populisti che intercettano lo scontento di gran parte dell’opinione pubblica, traducendola in voti. Le affermazioni dei due “gemelli separati alla nascita” Matteo Salvini-Lega Nord in Italia, e Geet Wilders-Partito per la libertà in Olanda, ne sono la prova.
I cittadini si vedono minacciati, da un lato, dalla grande crisi economica globale, dall’altro dall’incombenza di dover “sprecare fondi statali” per la gestione dei migranti. Oltre al timore che la grande presenza di profughi possa incidere sulla sicurezza pubblica.
Ecco che l’UE diventa il bersaglio perfetto, vista ora come un ottuso mostro tecnocratico, ora come un’espressione degli interessi di élite finanziarie transazionali, ora come strumento di prevaricazione politica e morale di aspiranti stati egemoni.

Le misure adottate dall’ Europa sembrano quelle di un continente in guerra?

L’Europa infatti si trova di fronte a un dilemma: qualunque politica sull’immigrazione che voglia essere morale o praticabile, non godrà, per il momento, di un mandato democratico. Allo stesso tempo qualsiasi politica che godrà di consenso popolare sarà immorale e impraticabile.
Ma sono i popoli europei a essere particolarmente inclini a politiche immorali e impraticabili? No, il problema sta nel racconto degli attori politici dell’immigrazione, vista come un problema contro il quale fare i conti.
Abbiamo visto l’UE patteggiare con la Turchia un accordo di 3,3 milioni di dollari in cambio di maggiori controlli alle frontiere. A gennaio la Danimarca ha approvato una legge che consente la confisca di oggetti di valore ai richiedenti asilo come forma di risarcimento per il loro mantenimento. E infine il recente accordo tra Italia e Libia riguardo maggiori controlli sul confine meridionale con il Niger, che collega la Libia all’Africa Sub-Sahariana in cambio di aiuti economici per supportare le autorità locali.
L’Europa sembra una cittadella protetta dall’immigrazione da un sistema di sorveglianza ad alta tecnologia, fatto da satelliti, droni e da recinzioni ad alta concentrazione. L’Ungheria al confine con la Serbia ha eretto un muro di filo spinato, utilizzato dai profughi che stanziano nel campo di Horgos, per appenderci i panni e gli avvisi di ricerca delle persone scomparse. Nell’Enclave Spagnola di Ceuta, i migranti tentano costanti assedi al muro che separa il confine con la Turchia e in molti perdono la vita sotto il fuoco della polizia marocchina.
Per quanto possano essere ostili le misure adottate dall’UE, alti i muri di separazione ai confini e altissime le probabilità di morte durante il disperato viaggio verso il nostro continente, chi è mosso dalla disperazione continuerà a rischiare la vita.

Politiche migratorie più liberali possono essere attuate solo con maggiore consenso dell’opinione pubblica. Gli esperti più ottimisti, pensano che l’evoluzione politico-istituzionale dell’Unione sia il risultato dell’impegno con cui istituzioni e stati membri hanno reagito per superare condizioni critiche che mettevano a repentaglio l’integrazione europea.
L’interrogativo è quindi, se possono essere considerate come il preludio di una nuova e sofferta ribalta, le circostanze cruciali che l’Europa affronta oggi.

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