Scienza

Energia nucleare

di Mauro del Corno e Valentina Montagna

 

Energia nucleare. Torna in Italia l’idea di costruire centrali nucleari per soddisfare a pieno la richiesta crescente di energia elettrica anche a costi più bassi. L’Italia in questo momento dipende da paesi esterni, alcuni già ben avviati con la produzione di energia tramite centrali nucleari.
Le materie prime. Come già detto, l’Italia non è completamente autonoma sul piano energetico. Come penso sia noto a tutti, la materia fondamentale per il funzionamento delle centrali nucleari è l’uranio, che si trova in natura in forma di minerale. Il territorio italiano non ne possiede riserve notevoli. Perciò saremmo comunque dipendenti da stati come Australia, Canada e Kazakhstan, i quali possiedono il 58% delle risorse di uranio, e sono anche i maggiori produttori. E’ evidente che non possiamo superare la dipendenza dall’estero con il nucleare. Inoltre, le centrali hanno bisogno di molta acqua per raffreddare il reattore. L’Italia non gode di forti precipitazioni né tanto meno di un clima glaciale. Potranno mai il Po, il nostro Ticino e altri fiumi italiani garantire tutto l’anno l’acqua necessaria? Allora perché non usare l’acqua del mare? Provate a chiedere a un ingegnere quanto sia devastante usare acqua di mare per raffreddare gli impianti termici!

Ma allora l’energia nucleare è conveniente o no per la nostra bolletta della luce? Oltre a considerare il prezzo dell’uranio, che tra l’altro è in continua crescita, c’è da tener conto dei costi per la creazione di una centrale, per la sicurezza e per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, punto dolente di tutta la questione. I tempi per la creazione di un reattore sono lunghissimi: circa 10 anni. Un aumento nel tempo di costruzione porta a un incremento dei costi, poiché aumentano gli interessi totali sul capitale prestato per costruire l’impianto.
Anche la sicurezza dello stabilimento richiede notevoli risorse economiche. Le centrali nucleari di terza generazione (3 e 3+), cioè dotate di reattore ad acqua pressurizzata, che è il tipo di centrale che si vorrebbe costruire in Italia, possono essere considerate sicure, nel senso che sono progettate per non avere incidenti della gravità tipo quello di Chernobyl nel 1986. Ma la sicurezza va definita per livelli di affidabilità. Ammettendo che un incidente come quello di Chernobyl non possa più avvenire, dal ’90 ad oggi ci sono stati numerosi incidenti non disastrosi ma pur sempre gravi, caratterizzati soprattutto da perdita di materiale contaminato. Ne cito alcuni tra i più recenti: nel 2004 a Sellafield (GB) c’è stata una fuga di 160 kg di velenosissimo plutonio rivelata solo dopo 8 mesi. Oppure in Giappone a Tokaimura nel 1999: 2 lavoratori morti, 3 gravemente contaminati e 119 esposti a forti dosi di radiazioni ionizzanti; si tratta del più grande impianto nucleare al mondo chiuso il 16.7.2007 per danni da terremoto.

Le scorie nucleari. Un problema che non è stato ancora risolto è lo stoccaggio dei rifiuti tossici radioattivi delle centrali nucleari. Questi sottoprodotti sono formati da una serie di isotopi con tempo di dimezzamento molto vario, ma che può arrivare anche ad alcune migliaia di anni. Perciò l’umanità non può permettersi di attendere centomila anni per riappropriarsi delle aree usate come deposito (la cui bonifica sarebbe comunque lunga e costosa). In ogni caso vi sono molti studi in corso per diminuire i tempi di emivita delle scorie radioattive. Lo scienziato italiano Carlo Rubbia ha avviato nel 1996 al Cern (laboratorio europeo per la fisica delle particelle) di Ginevra un esperimento che ha portato il nostro compatriota a ricavare numerose applicazioni pratiche a partire dalle scorie, ora in fase di sviluppo. I suoi risultati consistono nel provocare una trasformazione delle scorie radioattive, una trasmutazione che converte l’ uranio e il plutonio in sostanze diverse che non emettono più radiazioni e devono essere contenute per un periodo molto più breve, non oltre 5-600 anni. Inoltre alcuni ricercatori americani del The Institute for Genomic Research (TIGR) e della University of Massachusetts, Amherst, finanziati dal Department of Energy, hanno scoperto un batterio, il “Geobacter sulfurreducens”, che è in grado di metabolizzare i metalli radioattivi come l’uranio. Questo straordinario microrganismo, che vive nel suolo, potrebbe svolgere un ruolo molto importante nei progetti di trattamento biologico di siti inquinati.
“Il genoma di questo batterio può aiutarci a rispondere ad alcune delle sfide più complesse in materia di inquinamento ambientale nonché a produrre energia dallo sfruttamento di fonti rinnovabili” ha dichiarato Spencer Abraham, segretario per l’energia. “Geobacter è una parte importante della cassetta degli attrezzi che la natura mette a disposizione per rispondere alle sfide ambientali ed energetiche. Gli studi e la ricerca che ne deriveranno potranno contribuire a mettere a punto strategie e biotecnologie per la pulizia delle acque di falda e dei terreni inquinati nelle zone industriali oltre ad aiutare l’ energia nucleare”.
Non vi sono ancora certezze sulla sorte delle scorie nucleari, ma vi sono numerosi progressi in atto, e non è da escludere che un giorno questa enorme risorsa possa essere utilizzata a cuor leggero senza spine nel fianco.

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