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Elephant (2003), di Gus Van Sant

di Eugenia Consoli

«Mai ho visto un giorno così brutto e così bello.» (Alex)

In un mondo che ci rifila periodicamente film hollywoodiani alla Terminator o alla Die hard – o con protagonisti come Steven Segal, Arnold Schwarzenegger o Silvester Stallone – pieni di esplosioni, che Kim Jong-un se le sogna di notte, armi di tutti i generi, da far invidia ad un terrorista, cascate di proiettili, da cui gli eroi ne escono sempre illesi; il regista Gus Van Sant ha pensato di prendere una storia vera, che sarebbe stata una trama perfetta per sbancare il botteghino a suon di kalashnikov, e fare totalmente l’opposto.

La vicenda è quella avvenuta il 20 aprile 1999 alla Colombine High School (USA), che resta la peggior strage compiuta in una scuola fino al 2007.

Partendo dal titolo, tratto da un antico paradosso buddista (“Può un cieco descrivere un elefante?”), ci è subito chiaro il messaggio: come poter descrivere un evento di tale portata? Van Sant lo rappresenta in modo geniale e realistico, tanto da risultare privo di sentimenti e di empatia.

Chiunque conosca la vicenda, trascorre tutta la durata del film in attesa e ansia, perché ne conosce l’epilogo; eppure, con il passare dei minuti, vediamo un susseguirsi di scene di pura quotidianità, nulla è davvero sorprendente. Notiamo una serie di storie che si intrecciano, storie vissute dai singoli soggetti abbandonati a loro stessi, tanto da sembrare delle marionette, totalmente inconsci della loro stessa esistenza da non rendersi conto di quanto le loro vite siano inconsapevolmente intrecciate. Tutto ha la parvenza di un sogno, evanescente e surreale. I vari protagonisti si distinguono, fra loro, per l’aspetto fisico, il carattere e le varie problematiche personali, ma nella complessità della vicenda nessuno colpisce l’attenzione dello spettatore, come se effettivamente non importasse la loro esistenza, pur sapendo cosa sta per accadere e che questa è una storia vera.

Si è talmente assuefatti dal racconto che si scivola dapprima nell’ordinario, come se la storia di ogni personaggio sia un mero racconto fine a se stesso, poi nell’insensibilità, senza riuscire più a distinguere ciò che è bene da ciò che è male; tant’è vero che quando i due giovani entrano, armati fino ai denti, a scuola, si è così presi dalla normalità che quasi il tutto scade nella banalità degli eventi precedenti, tanto da non percepire la follia dei gesti e da non captare l’angoscia o il terrore che provano le vittime, come se fossimo sotto sedativi, storditi e ovattati.

Questo è il messaggio che il regista vuole trasmettere: la consapevolezza della totale impotenza che ci lascia muti e distaccati, di fronte ad avvenimenti che si sarebbero potuti evitare. Del resto, ormai, c’è un elefante in salotto, non lo vedi perché hai già scelto di essere “cieco”, ma sai esattamente che è presente, e che distruggerà tutto. Cosa puoi fare oltre ad aspettare l’inevitabile? A che scopo domandarsi per quale motivo ti ritrovi con un problema elefantiaco senza essertene accorto prima? Che senso avrebbe provare a fermarlo ora? Non è preferibile starsene in disparte, e, mal che vada, puntare il dito contro i colpevoli che hanno materialmente premuto il grilletto?

La terribile realtà è questa: un problema terrificante e concreto che si finge di non vedere perché, alla fine, fa parte della vita di tutti i giorni: del resto di qualcosa bisogna pur morire; e lo si affronta con distacco, in modo da non prendersi le proprie responsabilità. Perché è proprio questo il punto: ognuno di noi è responsabile per non essere intervenuto quando avrebbe potuto fare la differenza.

Questo film è lo specchio di una società, non solo quella americana, ma quella occidentale in generale, che ci vuole assenti ed indignati, che ci vuole deresponsabilizzare, come se fossimo dei burattini e vedessi gli altri come tali, e, nel caso in cui venissimo chiamati in causa, saremmo subito pronti a condannare i “colpevoli”, che sono solo il frutto delle circostanze che noi stessi abbiamo contribuito a creare: il famoso cane che si morde la coda.

Ogni volta che un uomo spara ad un altro, noi siamo contemporaneamente carnefici e vittime: colpevoli di non aver previsto e fermato l’azione in tempo, e, dall’altra parte, siamo offerti in sacrificio per una società completamente marcia.

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