Editoriale/ E’ ancora troppo poco
di Giovanni Cervi Ciboldi
Il voto agli intenti del decreto Crescitalia è certo positivo, data la necessità di mandare un chiaro segnale col quale annunciare una svolta liberale. Quello sulle misure scelte a tal fine può esserlo solo se i provvedimenti annunciati saranno il primo capitolo di un disegno necessariamente più grande per mitigare la recessione e scalare qualche posizione nell’Indice delle Libertà Economiche, in cui l’Italia è ottantasettesima. Dietro il Burkina Faso.
Nonostante gli annunci e i discorsi di presentazione, la riforma è infatti più debole rispetto a quella preventivata dalla stampa e in cui molti, a dire il vero, speravano. E ad essere sinceri, di “liberalizzazioni” in senso stretto si fatica a parlare.
La partita tra governo e rappresentanti di categoria termina con una sorta di pareggio. Risultato al quale il governo per ora si arrende, convinto che per questo primo tempo possa bastare. A non accettare le nuove misure sono invece i gruppi colpiti, che annunciano scioperi uno dopo l’altro: da quello legittimo (non nei modi) dei tassisti, a quello vergognoso dei notai.
Sono soprattutto due i punti sui quali non si è sufficientemente insistito: una vera riforma riguardante gli ordini professionali e un reale aumento delle possibilità di innestare un sistema di concorrenza nei settori professionali e con tendenze lobbistiche, per obbligare i prezzi a riassestarsi verso il basso. Solo in questo modo il cittadino avrebbe potuto compensare, almeno in parte, le maggiori uscite in tasse imposte dal precedente decreto con minori spese.
Se la battaglia contro i privilegi professionali non può dirsi vinta le responsabilità non sono certo solo governative. Sono, in generale, italiane. E’ una battaglia di principio, una questione di metodo che nessuno mai affronta, in sé relativamente semplice: la scelta di una professione significa fare impresa di se stessi, mettere in gioco le proprie capacità cercando di renderle prevalenti su quelle altrui, allo stesso modo in cui una impresa immette sul mercato i propri prodotti cercando di venderne più dei concorrenti. Dato ciò, il mercato delle professioni deve essere esposto alle regole del mercato e del rischio come ogni altra impresa. Ed è una pura bestemmia dire che in tal modo la qualità dei servizi diminuisce: se a decidere sulla bontà di un servizio è chi ne usufruisce, accade esattamente il contrario: i servizi peggiori morirebbero da soli perché inutilizzati dal pubblico, invece di essere tutelati dagli ordini e dallo stato, tra l’altro a discapito proprio dei cittadini.
Ma la scelta tra il mantenimento e l’abbattimento dei privilegi è una scelta anche filosofica. In una Europa in crisi, se come sembra si decide di affidarsi a quel sistema economico che, nonostante tutto, ha creato più benessere negli ultimi venti anni che in tutto il resto della storia dell’umanità, occorre affidarcisi in toto e senza remore. Una rivoluzione. Così non è stato, e così probabilmente non sarà. Troppo forti saranno le opposizioni dei diretti interessati.
Si trattava, insomma, di sfondare delle porte: in realtà si è citofonato per avvisare del proprio arrivo. Queste misure non saranno in grado di stimolare una crescita sufficiente alla ripresa economica della nazione. Non da sole, almeno: una testa si stacca con una scure, ma se si usa una bacchetta, i colpi necessari sono molti di più. E questi dovranno mirare alle tasse, al mercato del lavoro, alla spesa pubblica. Ma almeno è stato creato un precedente, si è scritta una premessa che si spera avrà seguito.
Restiamo in attesa. Consci, però, di quanto tutto questo non faccia altro che confermare quanto sia facile, in Italia, dire di essere liberali, ma quanto sia difficile, in fondo, esserlo veramente.