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E.

«È una sera calda, qui. Stasera rimarrò a casa. La polizia ha quasi spaccato la testa al mio amore; stava solo indossando una maschera antigas per proteggersi. Ti scriverò appena possibile. Prenditi cura di te».

A Pavia è ora di cena, fa un po’ fresco ed è una sera di inizio estate. Non sento E. da cinque anni, decido di scrivere un messaggio.  E. abita a Istanbul, frequenta con ottimi voti la facoltà di legge all’università, ama la città, i colori chiari dell’alba e il mare, che congiunge le coste turche del Paese all’Asia. Il nostro primo incontro risale all’estate del 2008, grazie a una vacanza studio londinese. Ricordo la sua voce gentile. Leggo queste parole e mi siedo, meritano rispetto e tempo.

Istanbul è una città bellissima, che vive il paradosso di sfogare la sua rabbia a orari prestabiliti.  In questi giorni di caos bisogna vivere, quindi semplicemente si compiono azioni quotidiane in un clima sospeso. L’università rimane sempre aperta. Nessun negozio è chiuso, le moschee risplendono come gioielli.
E., con gli occhi nocciola e la pelle di velluto, si arma solo dei suoi diritti. Buttandosi nell’aria calda di un’estate diversa, dopo la quale vede solo una qualche felicità, da spartire con i suoi amici, con i cittadini che credono nella Turchia libera.

Non c’è violenza nelle sue intenzioni, non ha nemmeno un coltellino con sé. Tremo a pensare a quest’amicizia lontana che posso raggiungere solo per telefono. I social network sono rastrellati dal Governo, le televisioni raccontano a tentoni la rivolta nata per difendere Gezi Park dalla costruzione di un supermercato.
Dietro a tutto questo ci sono decenni di sopportazione. C’è un presidente “ladro, un dittatore”, assenza di democrazia.

Chiedo rispettosamente se abbia voglia di parlarmi di quello che vive, se ha bisogno di qualunque cosa. Mentre scrivo questo mi sento vigliacca, so che non posso dare che ascolto, uno spazio: ed è questo, grazie a Inchiostro.

E. mi racconta che il risveglio del suo popolo potrebbe rappresentare la scintilla di un rinnovamento auspicato, nonostante molti suoi connazionali rimangano “ciechi”. Infatti mi confida il sospetto che alcune delle persone più violente delle proteste siano inviate da associazioni pro-governo, al fine di danneggiare i propositi dei dimostranti. Nonostante  il fumo dei lacrimogeni e gli idranti delle forze dell’ordine, le persone continuano a credere nella loro causa. Erdogan, convinto che la protesta sia organizzata unicamente contro la sua persona, sta rovinando con le sue mani il percorso tracciato da alcune positive riforme introdotte nel corso degli anni. E. mi spiega: «Negando l’aborto, regolamentando duramente gli svaghi e imponendo un regime di tipo religioso, andiamo contro alle stesse vicissitudini storiche che ci rappresentano e ci hanno portato al popolo fiero che sentiamo di essere».

Con il fenomeno del duran adamlar – letteralmente “uomini in piedi”- si vedono persone che portano avanti una protesta civile in un contesto ostile. Questo movimento scontenta il Presidente, impegnato a negoziare con l’UE. L’entrata del Paese all’interno dell’Unione Europea pretende condizioni favorevoli e una guida salda, leadership che i turchi contestano fortemente.

E. vuole vivere nel suo Paese, un luogo che rispetti i diritti umani: non vuole un uomo che comandi tutto dall’alto senza ascoltare anche le voci disperate. Perché «prima di essere presidente, Erdogan non era nessuno e possedeva nulla, dovrebbe ricordarsi come ci si sente».  E. vuole solo protezione per il suo futuro, dice che racconterà ai suoi figli di come abbia almeno provato a cambiare tutto, per sé, per i suoi amici, per chi verrà dopo. Possiede la prudenza che può tenere lontano il pericolo. Ha coraggio.

«People like us know that there are some people around here, they care about my right, they care about human rights, my country. So we understand that we are not alone.»

A noi cosa manca? Un amore più alto e sincero per noi stessi. Il senso di responsabilità per chi ci sostituirà. Il rifugio degli inattivi è la convinzione che tutto sommato la situazione non faccia così schifo. La paura di stare meglio.

Io intanto vedrò E. quest’estate, un incontro veloce, per ragioni diverse. Cercherò di dare sostegno, per come posso, alla sua vita in cambiamento. Il  regalo più grande è dedicare tempo: quindi grazie a chi legge, grazie da E.

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