Dove mettere i piedi

Racconto di Anna Atzeni – 4° classificato al Concorso Letterario “Sogno, superstizione, magia” 2022.

Ero lì da più di un mese e ancora non riuscivo a capire dove fosse la testa. Si insinuava in me il dubbio che la testa non ci fosse proprio. O perlomeno, che non fosse nelle immediate vicinanze, all’interno dell’unità urbana. Dato per assodato l’assioma secondo cui le città equivalgono a delle persone sdraiate supine; identificarne il capo era sempre stato il primo passo per capirle e, di conseguenza, percorrerle. Percorrere uno spazio significa percorrere se stessi, la propria storia, i propri desideri. Scegliere un percorso composto da sequenze di pedate date nei punti giusti del suolo, nel modo giusto, nell’ordine giusto significa avere l’opportunità di arginare le disgrazie e di decidere il proprio futuro, di orientare le proprie speranze. Camminare è costruire, è prevenire, è prevedere: e io desideravo diventare un architetto. I miei supervisori mi consideravano precisa nei calcoli e perfezionista nel metodo e per questo avevo avuto l’opportunità di vivere in una città nuova; un posto dove sarei stata meglio e dove avrei potuto apprendere di più. Ma mentre mi applicavo per trovarne la testa, con metodo, con ostinazione, e poi mi affannavo a cercarla, la testa, perché non la trovavo, capii che i miei calcoli, la mia perfezione, il mio metodo, la mia ostinazione: ogni cosa in me era mediocre come le villette a schiera dei sobborghi, e mai avrei avuto quell’ardita e grave leggerezza necessaria per costruire una cupola. Gli altri aspiranti architetti, miei compagni -miei rivali- avevano già capito dove fosse la testa, o perlomeno, se la testa, come sospettavo, non esisteva, avevano già chiaro l’arcano della città, di quel luogo oscuro e pianeggiante; io mi limitavo a percorrerne il reticolato, a osservarne il fiume solcato da ponti, a prendere nota dei suoi crolli e delle sue ricostruzioni. E se questa città non fosse il corpo intero, ma una parte di esso? E se sì, quale parte?
Ma non riuscivo a trovare la verità. Se non era un corpo intero, la città poteva essere qualsiasi complesso biologico: una cellula (e se sì, di che tipo?), un tessuto (e se sì, con quale struttura?), un organo (e se sì, con quale funzione?). E senza comprendere questo, non si poteva proseguire; perché come decidere in quali percorsi addentrarsi, quali piastrelle del marciapiede calpestare, di quali edifici diffidare e di quali fidarsi, che ponte attraversare per far andare tutto del verso giusto, così come avrebbe dovuto essere?
Siccome non capivo, mi persi. Annaspavo nel tentativo di stabilire una regola, delle certezze, delle crepe da evitare, dei sampietrini da calpestare, dei passaggi pedonali da preferire ad altri, dei portici le cui arcate avessero la forma con cui volevo plasmare mia parabola, la mia esistenza. Ma il seme del dubbio albergava in me. E se un passaggio del mio protocollo fosse stato sbagliato? O peggio, se, con la mia camminata approssimativa e confusa, avessi provocato delle catastrofi irrimediabili? Ogni fontana aggirata a eccessiva distanza, un mese di siccità; ogni gomma calpestata, una metastasi fiorita dentro un corpo amato; ogni incrocio attraversato in diagonale, un disastro umanitario. Sul marciapiede preferivo tenere la sinistra piuttosto che la destra, dal momento che ero mancina; preferivo tenere il conto dei miei passi per multipli di cinque: perché in famiglia eravamo cinque, prima che mio padre scomparisse un mattino di Aprile, inaspettatamente. In assenza di altre certezze, queste erano le mie linee guida, i brandelli di una mappa ì disegnata senza punti cardinali. La sofferenza per il mio fallimento come architetto cresceva di pari passo con il fastidio profondo e assillante che mi ha sempre causato l’errore, il vagabondare senza sapere quali sequenze tracciare col movimento dei piedi: perciò sbagliandole tutte e dunque, senza rimedio, rovinando la mia vita e quella altrui.
Un giorno, mentre salivo con attenzione una rampa di scale, tenendo l’indice sempre a contatto col muro, mi innamorai di una persona che le stava scendendo mentre indossava un largo scamiciato bianco in viscosa e che, se fosse stata una città, sarebbe stata Genova. Labirintica, dalle vie strette: ma aperta sul mare; e con degli svincoli da rimanere senza orientamento. Un giorno dopo quel giorno, mentre ero appoggiata a una colonna – nella speranza di assorbire la sua capacità di sostenere e scaricare i pesi – ci parlai per la prima volta, e parlammo di un’isola a cui entrambe eravamo legate; perché io quell’isola l’avevo impressa nel timbro della voce, e lei l’aveva disegnata nella forma della fronte che somigliava a un basso e lunghissimo muretto a secco. Nell’isola, dissi, i centri abitati sono pochi, e tutti hanno una testa, hanno braccia, hanno corpo e cuore, hanno anatomie definite e soprattutto percorribili. Sono così diversi, continuai, da questa città enigmatica e decapitata! Che soffrivo molto, le dissi, perché non ne comprendevo la sintassi, la tenuta, la forma. Ma lei era perplessa perché, mi disse, era la prima volta che sentiva questi discorsi; e secondo lei era immaginazione ciò che per me era una realtà senza scampo. Le piaceva chi immaginava, lo scoprii poco dopo: e scoprii anche che l’amore è quando non badi troppo a dove mettere i piedi. Smisi di seguire le mie regole, e la città pareva assumere una forma diversa.
Vivevo nella Sala dei giganti, che sembra che crolli; ma quella caduta così reale non avviene mai davvero, è un’eterna attesa che potrebbe finire da un momento all’altro con un sonoro tonfo, o che potrebbe anche non terminare mai. E se l’amore fosse un posto sarebbe Palazzo Te: con la sua precisa irregolarità. E aspettando che i triglifi pendenti scivolino definitivamente a terra si può solo osservare l’eleganza delle serliane, e i pavimenti labirintici e mosaicati: e ciò sancisce la definitiva impossibilità di capire dove mettere i piedi. Vissi il mio amore così, nella più totale anarchia pedonale. Avrei voluto stabilire delle regole che lo proteggessero, il mio amore. Ma, mentre Palazzo Te rimane ancora al suo posto, il mio amore prima cedette e poi finì, come caddero i giganti al di fuori dell’affresco. E la città fu amputata di tutti i luoghi dove eravamo state insieme, io e il mio amore, di tutte le vie che cominciavano con la lettera G e di tutte le colonne a cui mi ero appoggiata con lei. E la città assunse una forma ancora diversa, a macchie; con dei luoghi visibili e dei luoghi scancellati, immersi nella nebbia. Allora cercavo di trovare rifugio nei parchi o al fiume o sulle panchine vicino ai bar della piazza o lungo le strade che portavano alle risaie. Erano luoghi in cui si potevano osservare gli aironi, le cicogne, i cavalieri d’Italia, le gazze, i corvi; e poi i merli, i pettirossi, i passerotti, gli scriccioli. E i germani reali, e il martin pescatore e le cince di tutte le specie.
Dal momento che gli uccelli vivono felici perché possono non pensare a dove mettere i piedi; senza conseguenze. La città, seguendo il loro volo, diventava improvvisamente altra, cambiava scala dimensionale e percorsi possibili, era luogo di terrazzi e grondaie e mangiatoie sospese e alberi e rami, e specchi d’acqua, e briciole. Ormai la trapassavo senza pensare, immaginando di avere le ali. Dimenticando di evitare le crepe disegnate sul suolo. E, con difficoltà, accettai quello che ormai era evidente: che la città, di umano, aveva solo il suo non avere una forma definitiva; prendeva quella delle nostre paure, il perimetro che le davano le nostre regole, le nostre superstizioni di esseri fragili.

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