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Divertissement e dissacrazione nella lingua de “Lo stato sociale”

La rubrica su lingua, poesia e canzone ha già avuto occasione più volte di parlare del post-modernismo linguistico in canzone che, nato sul finire degli anni ’70, è arrivato al grande pubblico negli anni ’90, e si è concretizzato fondamentalmente in tre elementi: una netta prevalenza del significante (forma) sul significato (contenuto), in particolare dei suoni e dei giochi fonetici, con un fine prettamente ludico; una contaminazione di materiali linguistici disparati, sempre con un fine spiccatamente ironico o surreale; un tono scanzonato di divertissement, tanto in antitesi con il versante più illustre e intellettuale della canzone d’autore.

Dopo la vittoria di Francesco Gabbani nel 2017, nel 2018 arriva agli onori delle cronache il gruppo Lo stato sociale, che si classifica secondo con il brano Una vita in vacanza, ma che è uno dei vincitori morali del Festival per il numero di passaggi in radio che il brano ha conquistato; da anni la band tra l’altro proponeva un suo pezzo per il Festival, ma solo quest’anno sono riusciti ad approdare all’Ariston nella veste di autori e interpreti.

Il gruppo ha in realtà una sua storia già articolata negli ultimi anni, in cui si è ritagliata il proprio spazio all’interno della scena della musica indipendente italiana: uno spazio fisico (tour in Italia e in Europa, con date anche in spazi ampi come il forum di Assago), uno spazio nella memoria (a differenza di altre band nate da youtube non sono caduti nel dimenticatoio, ma hanno sempre allargato la cerchia dei propri fan) e soprattutto uno spazio ideologico. Il nome stesso “stato sociale” si rifà ad un retroterra dichiaratamente marxista, confermato ideologicamente dal brano Io, te e Carlo Marx (2014). Ma come sono costruiti i testi della band?

Il brano appena citato è un ottimo esempio dello stile della band emiliana, che affonda le sue radici nell’Emilia Romagna marxista, nell’Emilia di Guccini, di Pierangelo Bertoli e dei Modena City Ramblers, ma anche nell’Emilia degli Skiantos e di Elio e le storie tese. Anzi, proprio unendo queste due correnti, diametralmente opposte per la scelta delle tematiche, per lo stile e per la ricerca formale, Lo stato sociale crea testi che apparentemente non dicono nulla, ma che cercano di dirlo bene, in modo originale. In realtà non è proprio vero che i testi non dicono nulla. Io, te e Carlo Marx per esempio è una canzone d’amore in cui non compare ne l’amore ne i buoni sentimenti, ma che racconta la storia impossibile tra un cantante, un saltimbanco, un deficiente costretto a faticare per tirare a fine mese, e una ragazza che invece lavora quotidianamente e con fatica. In comune, i due hanno la difficile esperienza della vita e dell’umanità: l’amore è usato come pretesto per parlare di uguaglianza sociale (anche se neanche questo tema non viene esplicitamente cantato). Il brano è costruito su un dialogo che si alterna ad un monologo, e non è sempre chiaro capire chi stia parlando (la confusione è dettata anche dalla presenza dei pronomi personali), con un continuo gioco tra narratore interno e narratore esterno alla vicenda («Io canto e tu mi salvi la vita / lui raccoglie le mele e tu gli salvi la vita / lei scende in strada a battere e tu le salvi la vita»). L’intento è quello di scardinare tutti gli elementi della canzone tradizionale, che restano ancora nel pop di autori che si inseriscono in un filone simile, come il già citato Gabbani. I giochi di parole ovviamente sono presentissimi, e sono un prezioso strumento nell’opera di dissacrazione della forma-canzone (in questo brano troviamo per esempio «E non ci siamo accorti che il campo del confronto / perde metri nei confronti dello stanzino del comando»): non c’è allitterazione, ma un continuo giocare con la forma delle parole, sempre ovviamente contaminando, citando e mettendo insieme, in pieno stile post-moderno. Così il brano Cromosomi si apre con un dialogo con la voce di Eugenio Montale, nei versi di una delle sue poesie più classiche: la band gioca con i versi del poeta ligure, e sembra volergli rispondere a tono, dissacrando l’aura del classico che la scuola gli ha affibbiato («Spesso il male di vivere ho incontrato, / l’ho salutato e me ne sono andato / diciamo che non siamo amici ma ci conosciamo / non è indifferenza ma senso reciproco di appartenenza»). Insomma, come è stato ben osservato nel corso della trasmissione radiofonica La lingua batte, che nel novembre 2014 aveva intervistato i cinque ragazzi, le citazioni di parole vengono utilizzate in contesti diversi da quelli in cui si aspetteremmo di trovarle: l’intento è quello di scardinare le certezze, ma di farlo in nome di un’uguaglianza in cui ognuno deve essere pienamente libero di essere sé stesso, indipendentemente da schemi esteriori o imposti. È quello che i cinque ragazzi cantano in quella che possiamo considerare una loro canzone manifesto, Questo è un grande paese, dove prendono in giro tutte le situazioni italiote, in perfetto stile “Elio” de La terra dei Cachi, di cui la canzone sembra essere un po’ un sequel («Vieni da noi, questo è un grande paese / se ci nasci non hai diritti / se ci muori funerali di Stato […]/ da noi, tutte le strade portano alle larghe intese / tutte le strade portano all’Europa / tutte le strade portano affanculo»); nel testo trova spazio un altro grande classico della nostra letteratura, anch’esso dissacrato («citazioni di Ungaretti accanto a foto profilo da maiala / si sta come la coca nel naso agli ***»), e troviamo giochi fonici e commistione linguistica («sasha grey dj pacco / ti do un dito / prendi il braccio / quinto stato all’arrembaggio / Piotta fatto: handmade /merdonald: sundae»). Poco importa se la canzone è parlata e non è cantata, perché mantiene tutta la sua potenza dissacrante; poco importa se il cantante non è molto intonato, anzi, così il messaggio è ancora più efficace.

Attenzione però, nessun radical-chicisimo: come loro stessi hanno dichiarato, «non siamo contrari ai compromessi, mica abbiamo la verità in tasca. Quando sei disposto a lasciar andare una tua idea per qualcosa di più grande, se questo consente di favorire il bene collettivo, ben venga. Ben venga il compromesso». Ecco perché i giovani hanno accettato l’invito al Festival, occasione d’oro del mainstream: «Noi non ci fermiamo davanti a niente. Come ti dicevo, abbiamo l’idea, un po’ del cazzo magari, che si possa andare ovunque a dire quello che si ha da esprimere. Poi quest’anno si dice che ci sia Claudio Baglioni, siamo sicuri che apprezzerà le nostre proposte», così hanno dichiarato nel settembre 2017. E, a febbraio 2018, possiamo affermare che ci sono riusciti senza dubbio, aprendo così una pagina nuova per la loro carriera: riusciranno a mantenere intatta la loro identità?

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