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Difficoltosa Modernità – Attraverso la poesia del Novecento

Cecchinel-11Mercoledì 3 maggio il Collegio Borromeo di Pavia ha avuto la possibilità di ospitare quattro voci della poesia moderna che della modernità (e della sua problematicità) hanno fatto il punto di partenza della loro riflessione. Sono Luciano Cecchinel, Giancarlo Consonni, Andrea De Alberti e Rossano Pestarino, poeti la cui esperienza letteraria si colloca e nasce nel difficile solco del XX secolo, il più complesso a definirsi, il più ricco di suggestioni.

Per il XX secolo un’etichetta onnicomprensiva non è ancora entrata nell’uso, e si è soliti usare il termine che designa semplicemente il contenitore cronologico, “Novecento”, che non dice nulla sulla fisionomia specifica di ciò che vi è contenuto. Queste le parole impiegate da Guido Baldi (studioso di Letteratura Italiana) per spiegare quanto sia problematico designare e connotare letterariamente il secolo che sta (appena) dietro le spalle del XXI. I poeti attraverso la lettura dei loro testi esprimono questa insofferenza che non è solo letteraria (di cui sopra), ma anche esistenziale. Del resto tutti e quattro sono nati nel Novecento e due di loro (per non solo ovvie ragioni anagrafiche) affondano in esso maggiormente le radici del loro essere.

61QulqX+oEL (1)A parlar di sé per primi sono stati L. Cecchinel (in foto) e G. Consonni, coordinati nella discussione dalla professoressa, nonché amica dei due, Clelia Martignoni. I due scrittori hanno dunque esordito leggendo i propri testi: subito chiarissimo un primo tratto che li accomuna: la volontà di esprimersi attraverso quella che entrambi sentono come lingua d’origine. Ma si tratta di due dialetti diversi. Se Cecchinel si esprime in un dialetto che per la sua posizione geografica (Revine Lago) si connota come montano, e quindi aspro, Consonni si esprime in un dialetto rurale, quello della provincia di Lecco.

Il dialetto non è solo una scelta formale. Esso diviene il mezzo espressivo con cui si può far rivivere un mondo che entrambi sentono preda del “moderno”, simile ad un labirinto che tutto inghiotte nelle sue intricate vie. E non è forse casuale la comune amicizia con Andrea Zanzotto, che di una poetica affine è stato maestro. La loro poesia è anche occasione di un lavorio di auto-traduzione, per cui ciò che è concepito in dialetto viene anche trascritto in italiano, dunque all’insegna di un bilinguismo pervasivo per cui una dimensione che si avverte lontana cerca di rivivere in quella più vicina. Non è un caso che i curatori della conferenza abbiano scelto di inquadrare i due attraverso il binomio “alterità – radicamento” che meglio descrive il loro atteggiamento.

Dopo una breve pausa, coordinati dal professor Federico Francucci, parlano Andrea De Alberti (freschissima la sua pubblicazione con la Collana Bianca Einaudi, Dall’interno della specie, 2017) e Rossano Pestarino (non solo poeta, ma anche professore di Filologia Italiana all’Università di Pavia). Francucci ha esordito con una domanda che si rivelerà irrisolta: come parlare di entrambi i poeti, nelle loro similarità, ma parimenti nelle loro grandi differenze? Semplicemente, non bisogna porsi il problema, è pacifico lasciar parlare i testi. Nella fresca ilarità che suscita, il professore va dritto al punto e mette in primo piano l’esperienza della loro poesia.

7499270_2239492La poesia di De Alberti è vicina per forma ad un andamento prosaico, a tratti brachilogico che cerca di mettere sulla pagina i segnali confusi di una caotica realtà cui si cerca di dar forma. Torna dunque il tema di come sia difficile anche solo parlare (figuriamoci inquadrare) del tempo in cui viviamo. Questo tema ricompare anche nelle pagine di Pestarino, vicino nelle forme espressive alla lirica del Novecento di cui impiega soluzioni quali aspri incisi e versi sbiaditi, pur rimanendo nel solco aureo della lirica italiana adottando l’endecasillabo, là dove il primo si connota per una maggiore libertà metrica.

61YGiOBCvoLEppure, anche in queste due personalità dissimili torna qualcosa che li riporta sulla strada di Cecchinel e Consonni: il dialetto. Confessa infatti De Alberti che alcune sue liriche nascono prima in dialetto nella sua mente per essere trasportate poi in italiano sulla pagina. Torna in tutti il continuo vagare nell’indefinito, nella speranza di una salvezza del passato (Cecchinel e Consonni) e nella ricerca di un senso del presente (Alberti e Pestarino).

Fra l’altro, tutti e quattro i poeti hanno letto non solo testi editi (da diversissime raccolte, percorrendo un itinerario personalissimo) ma anche inediti, per la prima volta intellegibili al grande pubblico.

Per ironia della sorte, conclusosi il Novecento, ancora indaghiamo nei nostri animi alla ricerca di un modo per definirlo. Eppure già si aprono le porte di un nuovo secolo che, ancorché giovane, manifesta il fremito di un indicibile malessere esistenziale. Sullo sfondo stanno loro, i poeti, i ricercatori che tentano di squadrare la nostra difficoltosa modernità.

Tommaso Romano

Redattore per «Inchiostro». Studente di «Antichità Classiche e Orientali» presso l’Università di Pavia, è appassionato di troppa roba. Cento ne pensa, cento ne fa, cento ne scrive (o vorrebbe).

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