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In difesa di “Get out”

È di recente comparsa lo scetticismo, fra gli amanti del cinema, verso temi di carattere marcatamente politico e sociale. A detta di molti, il politicamente corretto e il didascalico permeano diversi prodotti cinematografici, riducendo i giudizi ad un’unica, impietosa analisi del contenuto. L’ultimo bersaglio di tale scetticismo sembra essere Get out (2017), film dell’afroamericano Jordan Peele, fresco di Oscar per la miglior sceneggiatura originale.

Mi sento di andare controcorrente: annovero Get out tra i film portatori di quello spirito polemico, dissacrante, corrosivo che tanto ha contraddistinto i cineasti di genere, a partire dalla lezione fondamentale di George Romero e John Carpenter.

È arduo dare una definizione compiuta dell’opera prima di Peele; il termine più calzante sarebbe commedia nera, imperniata su tematiche razziali, con sfumature horror e thriller molto accentuate. In questa sede, prescindendo da ogni considerazione tecnica, ciò che mi preme è ribadire lo statuto di opera adulta e innovativa che spetta a questo film.

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Get out ha conosciuto una lunga gestazione; inizialmente, fu pensato come soggetto perfetto da portare sugli schermi all’inizio del primo mandato Obama. È stato poi accantonato per merito del nuovo clima sociale, apparentemente disteso. Ma le sacche di odio razziale negli States, dure a morire, si sono ripresentate, portando ad una puntuale insufficiente risposta da parte delle istituzioni. In un certo senso è proprio a queste istituzioni, ai garanti della pace sociale, ai tolleranti di facciata che il regista statunitense sferra una pesante accusa di ipocrisia. Senza puntare il dito in modo sfacciato e vittimizzante, ma con la efficacissima arma della satira, dell’ironia, della distorsione grottesca.

In tutto ciò, la cosa che mi ha più convinto sono proprio le metafore, sempre usate come mezzo e mai come fine, mai in modo forzato; il film è apprezzabile tanto in virtù dei simbolismi che veicolano un certo messaggio sociale, quanto a prescindere da quest’ultimo. Per fare un esempio che sta agli antipodi, in Mother (2017), di Aronofsky, il simbolismo e le metafore fine a sé stesse assorbono tutta la sostanza del film, e il messaggio viene quasi inculcato a forza, senza alcuna mediazione. Entrando nel merito, un’altra cosa che sorprende è la diversità delle critiche mosse a tale messaggio; dai più “progressisti” viene dipinto come poco innovativo e incisivo, dai più “reazionari” come troppo schierato e manicheo.

A mio parere, l’intento di Peele è stato raggiunto pienamente: fare un film politico, impegnato ma al contempo fruibile, universale nel veicolare un messaggio mediante i paradigmi del genere horror-thriller. Nessuno, neanche lo stesso regista, nega i riferimenti culturali e pop da cui ha attinto diverse idee per costruire l’intreccio; pochi sembrano tuttavia riconoscere gli sforzi del regista per tenere insieme proprio questi riferimenti e inserirli nel suo quadro.

Get out è, in definitiva, un film che evidenzia alla perfezione le storture percettive che ancora oggi si hanno verso la popolazione afroamericana, trattata quasi con indulgenza e paternalismo, non riconosciuta nella sua dimensione e status sociale adulti, compiuti, dignitosi. Se notate, è proprio il tema del paternalismo eccessivo e conciliante quello che emerge con più forza nel film, un qualcosa che va ben oltre il semplice problema del becero razzismo, teoricamente assorbito e superato già decenni or sono. Peele ha avuto il grande merito di cogliere, e satirizzare, una sfumatura comportamentale dell’uomo comune, anche il più ben disposto, spesso inafferrabile.

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