Attualità

Della Commissione Chilcot e altre considerazioni

[Photo credits: PA]

Il 6 luglio 2016 è stato discusso pubblicamente il rapporto della Commissione Chilcot, una commissione indipendente istituita da Gordon Brown, Primo Ministro inglese dal 2007 al 2010, in merito alla decisione presa dal suo predecessore Tony Blair, di seguire Bush alla guida della Coalizione internazionale che ha invaso l’Iraq nel 2003. I risultati mettono in evidenza una generale inadeguatezza alla base della decisione e una mancanza di preparazione per ciò che sarebbe avvenuto dopo la guerra.

Nel febbraio del 2003, davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Colin Powell (a quell’epoca Segretario di Stato del Presidente G. W. Bush Jr.) tenne un discorso di un quarto d’ora nel quale presentò le prove della presenza in Iraq di armi chimiche di distruzione di massa, nonché di armi nucleari. Qualche anno dopo quelle prove portate da Powell di fronte ai rappresentanti e delegati del mondo intero si rivelarono false: erano state costruite apposta da un iracheno, conosciuto dai servizi segreti americani, inglesi e tedeschi come Curveball (al secolo Rafid Ahmed Alwan al-Janabi), che voleva convincere i principali attori della politica estera mondiale a rovesciare il regime di Saddam Hussein e liberare l’Iraq. Non c’è che dire: missione compiuta.

Il discorso di Powell, però, fu determinante nel cambiare la percezione degli equilibri mediorientali in materia di guerra asimmetrica. Fino a quel momento, cioè dall’attacco del 11 settembre alle Torri Gemelle e al palazzo del Pentagono rivendicato da al-Qaida, le informazioni circa la rete terroristica erano scarse e, in maniera generale, molto confuse. Gli Stati Uniti avevano bisogno di vendicarsi per quell’attentato e il miglior modo che avevano per far vedere che erano riusciti a capirci qualcosa era di creare un legame diretto tra Saddam Hussein e la rete di al-Qaida. Un legame che però, nella realtà, non era né diretto né evidente.

In Iraq, è vero, era presente una compagine locale di al-Qaida, quella guidata da Abu Musab al-Zarqawi, ma, come abbiamo avuto occasione di vedere in precedenza, egli agiva in modo autonomo e solo nel 2004 (quindi circa un anno dopo il discorso di Powell e un anno dopo l’invasione americana dell’Iraq) giurò fedeltà a Bin Laden e al-Zawahiri trasformandosi da Jama’at al Tawhid ua al-Jihad in AQI (al-Qaida in Iraq). Gli Stati Uniti e, indirettamente, Colin Powell hanno partecipato a trasformare la figura di al-Zarqawi da capo di un’organizzazione pericolosa, certo, ma senza eccessivi mezzi né armi, in un super-cattivo internazionale. La presenza di al-Qaida in Iraq, nel nord prima e a Baghdad poi, e varie testimonianze di affiliati arrestati in parti del Medio Oriente (tutte adeguatamente riportate e dettagliate nel discorso), erano dunque le prove necessarie e sufficienti per invadere l’Iraq e eliminare una delle principali minacce alla sicurezza nazionale, non solo americana, ma di tutto il sistema internazionale.

Il principale sostenitore di questa campagna fu Tony Blair, capo del Partito Laburista e Primo Ministro inglese dal 1997 al 2007. Insieme a Bush convinsero gli altri capi di Stato a partecipare alla Coalizione Internazionale che invase l’Iraq nel 2003. L’azione internazionale portò effettivamente alla fine del regime di Saddam Hussein, tanto che la popolazione scese in piazza inneggiando all’America e portando in giro le bandiere a stelle e strisce. Ma nel periodo successivo, la guerra si spostò in un’altra direzione: dall’Iraq si espanse nuovamente in Afghanistan e Pakistan, alla ricerca di Bin Laden o di un qualsiasi altro capo dell’organizzazione di al-Qaida, per ucciderli, neutralizzando finalmente la minaccia e per vendicare le morti avvenute sul suolo americano. In Iraq, l’invasione si rivelò presto per quello che effettivamente era, ovvero un regime di prevaricazioni sui civili e di torture sui prigionieri e sospettati. Uno dei pochi successi militari ottenuti dalla fine del regime di Saddam Hussein in Iraq, fu la morte di al-Zarqawi in un raid aereo nel 2006. Nonostante questo, la rete internazionale è rimasta intatta, con qualche sofferenza, fino alla morte del leader supremo, avvenuta nel 2011 a Abbottabad (Pakistan).

La missione inglese era troppo impegnativa per il governo e i risultati lenti a venire, per cui nel 2007, quando Tony Blair cedette il posto a Gordon Brown, la Gran Bretagna ritirò le truppe. Gli Stati Uniti erano soli a capo della Coalizione internazionale.

Il Parlamento inglese non era mai stato molto convinto dell’azione militare: furono, infatti, istituite già dal principio delle commissioni di inchiesta per valutare l’effettiva minaccia rappresentata dalle armi di distruzione di massa presenti in Iraq. Ma la più importante fu la Commissione indipendente voluta da Gordon Brown, che doveva rispondere a numerose domande circa la decisione di partire in guerra e al contempo valutare le conseguenze che questa aveva provocato sia in patria che in Iraq. La Commissione fu affidata a Sir John Chilcot, Consigliere privato di Sua Maestà la Regina ed ex sottosegretario permanente di Stato in Irlanda del Nord. Insieme ai suoi collaboratori, Chilcot avrebbe dovuto revisionare tutti i documenti di intelligence e le prove prodotte a giustificazione e sostegno della decisione di seguire il Presidente Bush; aveva, inoltre, l’autorizzazione a sentire anche i diretti interessati e a rivelare pubblicamente i suoi risultati. Dopo otto anni di lavoro, emerge che la valutazione fatta dai due capi di Stato (americano e inglese) per procedere all’azione bellica si basava su prove insufficienti e inadeguate, entrambi non avevano pienamente valutato le conseguenze dell’azione e/o previsto un piano di ricostruzione del governo per il periodo successivo alla fine del regime.

Già da quando era stato rivelato che le prove del Segretario Powell erano false, era diventato evidente che Blair era caduto nel tranello e l’invasione era avvenuta against better judgement e accompagnata da promesse (che se fossero state d’amore sarebbe stato meglio) scritte a mano in una fitta corrispondenza privata. Non si sa bene, infatti, che cosa Blair intendesse con “I’ll be with you whatever” all’attenzione di Bush, nel momento in cui gli prometteva un appoggio incondizionato.

Il resoconto di Sir Chilcot ha provocato in Gran Bretagna una forte reazione da parte dei familiari dei centosettantanove militari uccisi nei sei anni di operazioni belliche. Centosettantanove è un caro prezzo, ma è solo il conto parziale. Si devono considerare tutti i morti, civili e militari, vittime (casualties, per i più fighi) delle stesse conseguenze di una decisione così inadeguatamente preparata e giustificata.

In un’intervista di risposta alle conclusioni di Chilcot, Tony Blair ha affermato di considerare il mondo senza Saddam Hussein un mondo migliore. Ma il criterio di valutazione alla base di questa affermazione rimane però alquanto oscuro. Si può davvero considerare un mondo migliore il mondo senza Saddam Hussein? È vero che la sua morte e la presenza in Iraq delle truppe americane, gli sforzi nella guerra al terrore hanno portato alla morte sia di al-Zarqawi (2006) che di Bin Laden (2011), è vero che al-Qaida ha subito delle gravi perdite e per un periodo gli attacchi terroristici si sono interrotti. Si sono realmente interrotti? O si sono interrotti in quella parte di mondo privilegiata dove la guerra non è stata costante dal 2003? L’indebolimento di al-Qaida non ha, infatti, provocato meno attentati, meno attacchi suicidi a Baghdad, Kabul, Islamabad, ecc., ma soprattutto non ha provocato una riduzione del terrore. Dalle ceneri di AQI è risorto l’ISIS.

L’azione americana in Iraq è stata poco lungimirante, e frutto di uno studio inadeguato della situazione effettiva. Lo spaccamento lungo le linee religiose e etniche che adesso emerge in maniera forte è il risultato di un logoramento progressivo dovuto alla destabilizzazione provocata dall’invasione. L’Iraq era tenuto insieme dal regime, aver rimosso Saddam Hussein ha avuto lo stesso effetto della rimozione della valvola della pentola a pressione, al quale va aggiunto il fatto di aver sottovalutato gli incroci di interessi che una destabilizzazione dell’Iraq avrebbe potuto provocare a livello regionale. Non tutto è chiaramente imputabile all’invasione promossa dagli Stati Uniti, sostenuta dalla Gran Bretagna e accompagnata dagli altri Paesi, ma la mancata conoscenza della storia, della composizione etnica, delle criticità del Paese hanno portato ad un grosso (monumentale) errore di valutazione di politica estera.

Ma questa è una responsabilità da grandi, difficilmente giustificabile sulla base dell’enorme quantità di materiale che avevano a disposizione. Ma per chi quella disponibilità non ce l’ha, è tanto più importante formarsi gli strumenti per conoscere il mondo. È vero che il Medio Oriente, l’Islam, gli “arabi”, suscitano sempre un attimo di terrore nell’ascoltatore. Spesso, infatti, il discorso è depennato come troppo complesso, anche dagli organi di stampa e di informazione (cosa che a quanto pare giustificherebbe, in maniera generale, una trattazione superficiale e parziale). È vero, è complesso, ma in un mondo che cambia, in un mondo che deve ri-accentrare l’attenzione su quella regione così difficile, è fondamentale iniziare ad avere gli strumenti per prendere le misure di quanto accade, avere la capacità, seppur minima, da parte dell’opinione pubblica di giudicare se una scelta di politica estera è da avvallare o rifiutare.

Il Corano si può leggere, non provoca un’immediata conversione e nemmeno una revisione repentina della stratificazione della società per religione e genere. Allo stesso tempo l’arabo si può studiare, è una lingua difficile e sicuramente bizzarra, ma interessante, molto interessante. L’Islam si deve capire anche da un punto di vista non teologico, ma culturale e sociale. Aiuterebbe a capire finalmente che “musulmano moderato” non significa niente, nonostante sia chiamato a gran voce all’indomani di un qualsivoglia attentato, un’invocazione che ha, quasi sempre, il sapore di una presa di distanza forzata. Al contrario, però, esistono i musulmani radicali, quelli sì che si sono rivelati pericolosi, ma proprio il loro potenziale offensivo deve essere capito per essere neutralizzato. Le cause di una diffusione così ampia e rapida dell’estremismo come la stiamo vivendo adesso ha delle radici profonde che vanno contestualizzate, in assenza di ciò il vicino si trasformerà in nemico, un nemico sempre più violento se ostracizzato.

Conoscere per capire, capire per saper distinguere, saper distinguere per saper valutare l’entità del pericolo. Andare a rimorchio di idee preconcette potrebbe portare a doversi arrampicare sugli specchi per giustificare una decisione poco oculata come è successo a Blair, e vi ritrovereste a pensare che aver eliminato Saddam Hussein abbia liberato il mondo dal male quando alle radici di questo male c’è proprio la convinzione di aver fatto del bene, senza sapere però per chi.

Concludo dunque questa rubrica invitandovi tutti a leggere per curiosità, leggere per capire, leggere per distinguere così da non fare di tutta l’erba un fascio. Ammetto che non sono sempre letture leggerissime e che spesso chi scrive è convinto di appartenere ad un’élite privilegiata che capisce meglio degli altri quello che succede. Chi non sa cosa succede, però, fa la figura del pollo in mondovisione, come Blair, Powell prima di lui, e di tutti gli altri che a loro si sono affidati against better judgment, senza pensare con la propria testa.

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