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Del Toro, cronaca di un trionfo non annunciato

“I believe in monsters”: Guillermo del Toro ci crede davvero nei mostri, e basterebbe un veloce sguardo alla sua filmografia per capirlo. Persino uno come lui però è sembrato intimorito nel tenere tra le mani una creatura forse meno spaventosa, ma senza dubbio particolarmente preziosa come il Leone d’oro vinto nell’ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia. Un trionfo inaspettato e sorprendente per il cinquantatreenne regista di Guadalajara, il coronamento di una vita intera vissuta all’insegna di un’idea del cinema che proprio la pellicola presentata al Lido, The shape of water, improbabile love story tra una donna muta e un orribile essere acquatico creato in laboratorio (chiaro omaggio a Il mostro della laguna nera di Jack Arnold) sullo sfondo della Guerra Fredda, racchiude al meglio. Un risultato che non può che rappresentare una piccola grande rivoluzione sia per il festival che per l’intero panorama cinematografico mondiale: mai infatti un premio di questo tipo era stato assegnato ad un prodotto così mainstream e per giunta di genere fantasy, insieme all’horror una categoria da sempre guardata con diffidenza e bistrattata in certi circuiti d’élite. Di ciò va dato certamente grande merito all’estro del direttore della mostra Alberto Barbera e al coraggio della giuria presieduta da Annette Bening se d’ora in avanti si potrà parlare di un prima e di un dopo la clamorosa vittoria di del Toro a Venezia 74.

mimic-mira-sorvino-1Questo successo parte però da lontano. Gli inizi in Messico sono precocissimi: già a 8 anni il giovane Guillermo filma giocattoli e altri oggetti con la Super 8 di suo padre. Dopo numerosi cortometraggi giovanili, Del Toro esordisce alla regia in tv nel 1988 con la serie horror La hora marcada, sorta di versione messicana di The Twilight Zone che in patria divenne ben presto un autentico cult. Durante questa esperienza fa la conoscenza del regista Alfonso Cuarón e del direttore della fotografia Emmanuel Lubeszki, altri due nomi che avranno modo di farsi conoscere. Ben presto arriva l’esordio nel lungometraggio con Cronos (1993), pregevole horror che in Messico raccoglie svariati premi. L’opera gli vale una chiamata ad Hollywood e la regia di Mimic (1997), monster movie à-la-Alien. A livello produttivo si tratterà di un’esperienza piuttosto tribolata e Del Toro per anni odierà il film, riappropriandosene soltanto nel 2011 con l’uscita della versione director’s cut. Anche a livello personale è un momento difficile: suo padre viene rapito e liberato dopo più di due mesi previo pagamento di un lauto riscatto, e Del Toro decide di lasciare il Messico per Los Angeles. Nel 2000 Del Toro telefona ad un suo collega, tale Alejandro González Iñárritu, per dirgli che sì, il suo Amores perros era una gran film d’esordio, ma era un po’ troppo lungo per i suoi gusti, dando così il via ad una serie di discussioni che sfociarono ben presto in una solida amicizia. Risentiremo parlare anche di lui. Un anno dopo Del Toro torna in patria e dirige La spina del diavolo (2001), storia di fantasmi ambientata durante la Guerra civile spagnola. Una pellicola imperfetta ma di dolente bellezza, in cui per la prima volta i veri mostri sono quelli, umani, della Storia.

1409646922__0003_Il-labirinto-del-fauno-Uomo-Pallido-Pale-ManIl ritorno a Hollywood è segnato da due adattamenti di opere fumettistiche a tinte dark: Blade II (2002), interessante sequel commissionato dalla Marvel, e soprattutto Hellboy (2004), tratto dall’omonima opera di Mike Mignola, con l’attore-feticcio Ron Perlman nei panni del memorabile diavolo rosso. Si arriva così al 2006, anno di grazia per il cinema messicano con l’uscita nel giro di pochi mesi di tre pellicole di grande rilievo: Babel di Iñárritu, I figli degli uomini di Cuarón e Il labirinto del fauno di Del Toro. El negro, El flaco e El gordo, così come i tre amano chiamarsi tra loro, dominano la scena internazionale e la notte degli Oscar 2007. Il film di Del Toro, lancinante fiaba nella quale una innocente bambina cerca rifugio dagli orrori del regime di Franco in un mondo sotterraneo popolato da fate e altre bizzarre creature, colleziona tre statuette su sei nomination. La stampa celebra i “très amigos” del cinema, che da qui in poi cementano il loro rapporto fondando insieme una casa di produzione, la Cha Cha Cha Films, e aiutandosi spesso con consigli e critiche durante la realizzazione dei rispettivi film.

Hellboy-II-hellboy-ii-the-golden-army-3963065-1200-799Del Toro sembra ormai maturo per grandi traguardi. Il 2008 è l’anno di Hellboy II: The Golden Army, il quale, nonostante abbia la sfortuna di uscire nello stesso mese de Il cavaliere oscuro di Nolan, ottiene un consenso pressoché unanime conquistando anche una nomination agli Oscar per il trucco. La notizia che più aveva fatto sognare gli appassionati era però arrivata pochi mesi prima, quando a del Toro era stata affidata la regia della trasposizione del romanzo Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien, in quello che a tutti era subito sembrato un marriage made in heaven. Purtroppo però Del Toro abbandona il progetto nel 2010 per i continui ritardi causati dalle difficoltà economiche della MGM, rimanendo poi accreditato solo come co-sceneggiatore. Lo sfortunato episodio non fu però un caso isolato: in questi anni sono innumerevoli i progetti abbandonati (su tutti Dark Universe per la DC) o mai realizzati (l’adattamento di Alle montagne della follia dell’amatissimo Lovecraft o il tanto agognato terzo capitolo di Hellboy).

theshapeofwaterL’unico film che Del Toro riesce a portare a termine in questo periodo è il blockbuster fantascientifico Pacific Rim (2013), ad oggi il miglior risultato del regista al botteghino. Tramontata la possibilità di dirigerne anche il sequel, si arriva agli ultimi anni con la serie vampiresca The Strain (2014-17) e l’horror soprannaturale Crimson Peak (2015), burtoniano racconto gotico con fantasmi, sangue e torbide vicende familiari penalizzato però da uno script piuttosto debole. Nonostante non si possa mai parlare di flop clamorosi, la carriera del gordo procede decisamente più a rilento rispetto a quella degli altri due amigos, che si prendono le luci della ribalta in palcoscenici che per Del Toro rimangono solo un miraggio, tra cui lo stesso festival di Venezia, dove Cuarón e Iñárritu presentano rispettivamente Gravity (2013) e Birdman (2014) come film d’apertura, raccogliendo un ottimo riscontro di pubblico e critica che li porterà a fare man bassa agli Oscar. Strano quindi che a nessuno siano fischiate le orecchie quando lo scorso luglio venne ufficialmente annunciata la presenza di Del Toro al Lido. Forse perché alla vigilia nessuno, nemmeno tra i suoi fan più accaniti, credeva veramente che The shape of water, il quale pure veniva considerato una sorta di ritorno alla felice commistione di fantastico e storico de Il labirinto del fauno (considerato dai più la sua opera più matura), potesse portare a casa qualche riconoscimento, e anzi non è mancata qualche ironia per la presenza in concorso di un film così poco “nobile” agli occhi di certa critica ancora legata a chissà quale vecchia e superata idea di cinema d’autore. E invece lo scorso 9 settembre è stata una notte indimenticabile per il freak Guillermo, l’omaccione dalla faccia simpatica ossessionato da mostri, demoni, fate, insetti, fantasmi e atmosfere lugubri, che proprio a Venezia ha ottenuto il riconoscimento più importante per lui e per quella grossa fetta di cinema da lui rappresentata, e che ora più che mai può rivendicare a gran voce il suo valore e la sua pari dignità. Sicuramente ora Del Toro non avrà più problemi a realizzare liberamente i tanti progetti in cantiere (tra cui un già attesissimo Pinocchio in stop-motion ambientato in epoca fascista) e a regalarci altre memorabili storie di mostri. O almeno lo speriamo.

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