Defending Right and Wrong #4- Il reddito di base può renderci più liberi?
(Illustrazione: Alberto Fusco)
La bellissima illustrazione di Alberto Fusco, creata ad hoc per la rubrica, è un fedele ritratto a colori dei punti di partenza del nostro dibattito di oggi ed è, dunque, un modo per iniziare a fare chiarezza sulle incongruenze e la bellezza di una politica che è evocativa già solo nel nome “reddito di base”. Il pregio del nostro ritratto del basic income, a mio parere, è quello di aver reso molto bene su carta la compresenza, e la contraddizione, tra ciò che è universale e ciò che è particolare: lo vediamo nel camice bianco, nella barba folta, nelle scarpe o nell’assenza di scarpe dei personaggi che popolano il disegno e, al contempo, vediamo i loro volti spogli da tutti i connotati, tutti uguali (universali) e tutti differenti (particolari). Se il pregio del basic income sta appunto in questa compresenza, risulta invece meno riuscito il tentativo di coniugarla con la coppia di elementi ricchezza-libertà. Il basic income, nel suo tentativo di moltiplicare le possibilità di tutti i cittadini e ridurre la loro povertà o la loro scarsa indipendenza, sceglie di erogare una somma di denaro in maniera altrettanto universale, dimostrandosi teoricamente affascinante, ma praticamente fallace. Non è affatto logico che una somma di denaro possa effettivamente rendere tutti i cittadini liberi o più liberi. Una somma di denaro rassomiglia ad una somma di possibilità solo aprioristicamente; a posteriori, invece, questa ipotetica somiglianza potrebbe perdere di senso. Cosa vuol dire creare effettive possibilità di miglioramento per gli uomini e renderli il più possibile gli uni eguali agli altri? Il reddito di base è il miglior modo di renderli liberi o finisce solo per aumentare una porzione delle loro ricchezze in maniera indistinta? E se il denaro finisse per creare comunque, come effetto collaterale, delle forme di dipendenza per gli uni verso gli altri? O, al contrario, il basic income può essere l’unica forma di redistribuzione di ricchezze davvero universale ed equa? L’assenza di un rapporto di identità tra libertà e ricchezza fa discutere e muove le fila del nostro dibattito, un dibattito non semplice quello toccato ai quattro triennalisti di oggi, ma di sicuro un buon banco di prova teorico per i dibattenti e gli uditori e, si spera, uno spunto di riflessione meno canonico per i lettori.
Mozione: “Il reddito di base è la migliore espressione di una società libera”
Primo Proponente
(10 minuti)
«Vorrei dare una prima definizione del reddito di base o basic income, come viene chiamato nella maggior parte delle pubblicazioni. Con reddito di base intendiamo quel versamento in denaro percepito da ogni individuo maggiorenne ed erogato a prescindere da distinzioni di razza, credo o occupazione, infatti, l’unico prerequisito per essere beneficiari di un reddito di base è la cittadinanza o la residenza (a seconda delle posizioni di pensiero). È il prerequisito in base al quale la somma viene erogata, infatti, che differenzia il reddito di base da altre forme di politiche sociali con cui spesso lo si confonde. Il basic income viene percepito dagli individui e non dalle famiglie, a prescindere da qualunque altra forma di reddito proveniente da altre fonti, e a prescindere da ogni attività lavorativa svolta o che si sta svolgendo. Viene quindi distinto dal reddito minimo garantito che viene invece percepito su base individuale, dipende dall’età lavorativa, il suo ammontare dipende dal variare dell’età anagrafica, e viene infine calcolato prendendo in considerazione anche i redditi degli altri membri della famiglia. Quest’ultima è la forma di politica sociale sostenuta dal Movimento 5 Stelle, non il basic income. Non appartiene alla stessa categoria nemmeno l’imposta negativa sul reddito che è sempre percepita su base familiare. L’idea di un reddito di base universale e incondizionato non è recente, ne abbiamo testimonianza già nelle prime comunità cristiane che raccoglievano le ricchezze e le redistribuivano nella comunità in parti uguali, ma è più tardi con Thomas Paine, nel 1796, che questo tipo di redistribuzione assume la sua forma canonica. Paine parla di un’idea di redistribuzione “totale” partendo dalla convinzione che, in principio, tutte le terre (le risorse naturali) appartenevano all’umanità intera, mentre solo le migliorie apportate dall’attività dell’uomo erano considerabili “proprietà” del singolo. A lui, infatti, spettava versare “parte” della sua rendita (la parte dell’eredità naturale di cui è ora proprietario) ad un fondo comune, fonte poi per la redistribuzione (in numeri: 15 sterline per i maggiorenni, 10 per i cinquantenni). Stiamo parlando sia di individui ricchi che di individui poveri, questo perché l’elemento che fonda l’idea di un’eredità naturale è che questa eredità è universale, e per questo prescinde dall’attuale condizione degli uomini che ne sono proprietari tutti allo stesso modo. Poter attingere a queste risorse naturali è un diritto dell’umanità intera. Il significato e gli obiettivi di una redistribuzione universale sono espressi bene nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire il benessere proprio e della sua famiglia (…) alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità o altre perdite di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”. È abbastanza chiaro che gli obiettivi del basic income siano la riduzione della disoccupazione e, più in generale, la riduzione della povertà. Si intuisce però subito una delle obiezioni più spesso mosse ai tentativi di redistribuzione della ricchezza, e a questo in particolare: e se fosse una perdita per lo Stato? E se questo movimento di ricchezze da a a b finisse per impoverire a e per non giovare poi più di tanto a b? Il reddito di base dovrebbe essere pensato come un investimento per un benessere comune più diffuso, per un nuovo contesto sociale, un investimento a lungo termine, insomma. È un investimento da un punto di vista economico, dove si cerca di far fronte al patto congiunto tra l’evoluzione della tecnica e l’internazionalizzazione di mercati che, nei paesi ad alto capitalismo, crea difficoltà a garantire posti di lavoro sufficienti e stipendi sufficientemente dignitosi. Ma è anche, come ho accennato, un investimento da un punto di vista ideologico che, sotto forma di “sacrificio”, se vogliamo, mira a realizzare una società più egualitaria e più giusta, dove il benessere e la libertà collettiva possano tendere sempre ad aumentare, una sorta di via capitalista al comunismo. La libertà che vogliamo promuovere è una libertà senza i vincoli di uno stato paternalistico, uno stato che pensa e opera per i cittadini, ma una libertà che rende possibili i propri desideri. I soldi aiutano ad uscire dal blocco della diminuzione del lavoro, aiutando tutti a trovare soluzioni differenti. Il basic income vuole essere un trampolino di lancio e non un modo per adagiarsi: le persone vogliono lavorare, solo l’1% vuole fare “surf a Malibou”. Nessuno dovrebbe più dipendere da nessuno, diminuirebbe la povertà e quindi i furti, la schiavitù, l’occupazione indesiderata. Il basic income, quindi, garantirebbe una “base” al benessere collettivo, un punto di partenza sia economico che ideologico: un punto di partenza sotto forma di denaro e di idee, quindi, una base in termini di possibilità, non ovviamente in tempi immediati, ma per le generazioni future».
Primo Opponente
(10 minuti)
«Da La società libera di Friedrich von Hayek: “La parola libertà non significa nulla se non le si dà un contenuto particolare, con un piccolo colpo le si può far assumere il contenuto che si vuole”. A me piacerebbe guidarvi oggi, con un esperimento mentale, in un ragionamento che mi porterà a sostenere l’idea che il reddito di base non sia né espressione di una società libera, né materialmente realizzabile. Provate a immaginare questa situazione ipotetica: sullo sfondo del nostro esperimento mentale un professore universitario che deve tenere un corso molto difficile e importante per i suoi studenti, tanto da richiedere la frequenza obbligatoria. Il nostro professore però ha problemi di orari, grossi problemi di orari, e quindi gli viene fatto notare che creerà, di conseguenza, grandi problemi di sovrapposizione negli orari degli studenti e, quindi, enormi difficoltà per loro a frequentare. Il professore sceglie quindi di dare a tutti un 18 da cui partire (la somma minima del reddito di base) per sostenere l’esame, e, per coloro che avranno la possibilità di frequentare, sarà obbligatorio distribuire appunti e informazioni necessarie a tutti gli altri. Non c’è alcun obbligo di reciprocità invece per chi non frequenta, non sono obbligati a seguire il corso, non viene loro nemmeno richiesto di specificare il motivo della loro assenza, potrebbero essere al bar o in un’altra classe, ma non sembra essere importante. Ora vi chiedo, se foste nella posizione di coloro che devono frequentare, vi sentireste liberi? Sareste letteralmente obbligati a sostenere il sistema che si è creato (la società in cui viviamo), sareste obbligati a produrre per altri correndo il rischio che nessuno vi sostituirebbe se un giorno foste malati, perché chi non frequenta non ha obblighi nei confronti di chi frequenta. L’unico incentivo che avete è un 18. Parliamo meglio di incentivi allora: si dice che creando maggiore libertà per ciascuno (attraverso l’erogazione del reddito di base, nel nostro caso) tutti vivranno meglio. Va detto però che, nel nostro scenario ipotetico, un 18 in carriera, per il quale lo studente non deve fare assolutamente niente, non rappresenta davvero un grosso incentivo. Così come chi aspira a voti più alti non sarà incentivato da questa situazione perché il suo lavoro verrà sfruttato da chi non è presente. Anche se entrambi sostenessero l’esame, chi non ha frequentato non subirebbe nessuna penalizzazione, potrebbero prendere entrambi 25, ma è la stessa cosa per voi? Uno era al bar e l’altro a frequentare, ha studiato e si è impegnato. Io non credo che questo possa essere una realizzazione di maggiore libertà, non solo, non credo nemmeno che la libertà di cui si sta parlando sia libertà individuale concepita per come davvero dovrebbe essere. Penso che si stia facendo molta confusione, che si stia parlando di libertà e di ricchezza identificandole con lo stesso bene quando non lo sono, e che si creda di aumentare la prima grazie all’aumento della seconda. Chi è che produce, che dà effettivamente le risorse da distribuire? Quelli che lavorano, quelli che si impegnano. Se noi tassiamo questi abbastanza da distribuire a tutti un minimo, siamo veramente sicuri che potranno continuare a sostenere all’infinito questo tipo di sistema? Non c’è alcuna reciprocità, io lo chiamerei più sfruttamento istituzionale che equa redistribuzione. Non sono nemmeno certa che questa modalità di produzione, per com’è stata presentata, garantirebbe un solido Welfare State: nell’ipotesi di investire una quota minima per ogni cittadino, ad esempio 500 euro, l’ammontare sarebbe, a conti fatti, il doppio di quanto spendiamo oggi per istruzione e sanità. E stiamo parlando di una somma irrisoria al di sotto della quale non penso potremmo andare considerando il fatto che con 500 euro dubito che qualcuno possa sul serio vivere meglio, a meno che la vita non diventi meno costosa. Questa spesa (solo 500 euro) andrebbe a modificare radicalmente il sistema dei servizi che vengono erogati oggi: tasseremmo chi produce per dare a tutti indiscriminatamente e, così facendo, diminuiremmo la produzione e i servizi. È insostenibile fare entrambe le cose. In questa sede abbiamo parlato di reddito “di cittadinanza”, mi soffermerei anche su questo concetto. Parliamo quotidianamente di immigrazione, di comunità europea, andiamo verso la globalizzazione e l’internazionalizzazione, come è stato detto, e ora torniamo alla questione della cittadinanza? Torniamo indietro di 100 anni con un rischio fortissimo di strumentalizzazione politica da parte del populismo, col rischio di ricominciare a dire “chiudiamo i confini”? È libertà di movimento questa? Nel nostro esperimento lo studente che frequenta non può andare a frequentare un altro corso, allora come potremmo nella realtà garantire continuità al progetto Erasmus, allo spostamento di capitale, a chi va a vivere in un altro posto? È necessario riflettere su questi punti perché modifiche di questo tipo a livello ideale, che hanno ovviamente anche delle basi condivisibili, hanno implicazioni effettive difficilmente realizzabili che si scontrerebbero con la libertà per come la viviamo noi oggi. Viviamo la libertà di movimento, di poterci realizzare come professionisti e come persone, di chiedere aiuto allo Stato, e se questi soldi, questa immaginaria quota di base, devono essere investiti non è questo il modo migliore per farlo. Il valore di questa quota dovrebbe stare nella sua capacità di migliorare le nostre condizioni di vita, ossia, di rendere queste che ora abbiamo migliori, non per forza di stravolgerle o di crearne di nuove. Questi soldi vanno investiti per migliorare le condizioni che già ci sono: i ragazzi del nostro esperimento mentale sarebbero, così, liberi di frequentare o meno, sarebbero liberi di decidere sulle proprie risorse e sul proprio tempo. Col basic income, invece, quello che faremmo non sarebbe creare lavoro ma solo distribuire denaro. Quella del reddito di base è, a mio parere, una proposta inconsistente se il suo fine è realizzare la libertà: anche se ovviamente tende a costruire una società più libera, non vuol dire che sia la miglior forma per farlo. Il basic income non durerebbe nel tempo e porterebbe con sé un alto rischio di strumentalizzazione politica e, quindi, a enormi problemi sulla libertà per come noi la viviamo oggi. Vi ringrazio».
Secondo Proponente
(7 minuti)
«Rifacendomi anche ai problemi appena sollevati dalla mia collega, è stato detto che nell’esempio, riguardo l’obbligatorietà o meno di frequentare il corso, alcuni studenti “devono” frequentare per favorire gli altri. Ma il punto è che, se non c’è in generale obbligatorietà, nessuno deve frequentare, e di sicuro nessuno deve frequentare per favorire qualcun altro. Lo stesso vale per gli individui che percepirebbero un reddito di base: non sono obbligati a lavorare o a non lavorare, e questo non implica in nessun modo che x debba dunque lavorare per y. Questa assenza di obblighi è, nel nostro caso, una forma di libertà, non una camuffata opera di costrizione. È stata inoltre citata una cifra ipotetica, ma in base a cosa? Non si può ancora parlare di una quota esatta, l’unico riferimento a cui si cerca di tener fede è la garanzia di sufficienza e sussistenza per l’individuo. Riferimenti che vanno poi calcolati in base agli standard nazionali: in India bastano solo 4 dollari, per esempio. Si parlava inoltre di continuare con i benefici che il welfare già offre o di investire in questi, giudicando insostenibile il reddito di base come politica sociale alternativa. A nostro parere sono piuttosto questi benefici che sono insostenibili perché non riescono, più di altri o meglio di altri, a creare incentivi al lavoro. Per non parlare del fatto che lo status quo blocca le classi più deboli nella trappola della disoccupazione e della povertà, senza fornire alcuna prospettiva. Torniamo a Paine, alla proprietà naturale, soprattutto, all’idea che ci siano risorse che devono essere concepite come collettive, e quindi fruibili da tutti. Il caso dell’Alaska è la migliore espressione di questa idea, un caso reale in cui il basic income è davvero una quota di eredità naturale universale a cui tutti possono attingere e hanno il diritto di attingere. In Alaska il quantitativo di petrolio presente sul territorio viene redistribuito ai cittadini che ne sono proprietari naturali, una base reale che “rassicura” tutti gli individui perché permette loro di compiere effettivamente “scelte libere”. Altra obiezione: si concede qualcosa in cambio di nulla, si sfrutta chi si impegna per dare a chi non vuole frequentare. La verità è che anche tutte le altre forme di redistribuzione che già conosciamo non rispondono a requisiti di merito, il più delle volte. Decidere poi chi merita cosa è una faccenda complessa che probabilmente nessuna politica di redistribuzione potrà mai soddisfare adeguatamente».
Secondo Opponente
(7 minuti)
«Mettiamo un attimo da parte il caso Alaska perché più che un esempio fattibile mi sembra sia un’eccezione: l’Alaska ha una fonte di risorse naturali (petrolifere) che purtroppo molti altri Paesi non hanno, quindi, non può giocare a favore della promozione del basic income. Vorrei, invece, soffermarmi di più sul perché per noi il reddito di base non possa essere la migliore realizzazione di una società libera, più che una buona politica sociale. A mio parere, il reddito di base non diminuirebbe la povertà, né aumenterebbe la libertà, perché vittima di un paradosso, e per spiegarlo mi servirò di due argomentazioni fondamentali: la distinzione tra eguale trattamento e trattare da eguali e il concetto di valore della libertà. Il paradosso a cui faccio riferimento sta nella difficoltà, intrinseca a una politica di erogazione di denaro universale, di colmare la differenza, in termini di ricchezza, tra ricchi e poveri nel momento in cui, per definizione, la somma di denaro continua ad essere erogata sia agli uni che agli altri (che ne hanno eguale diritto, secondo la definizione di basic income). Secondo i sostenitori del reddito di base, l’aumento in termini di ricchezza e libertà sarebbe, quindi, altrettanto universale. Il problema è che aumentando la ricchezza di tutti i cittadini, non si diminuisce automaticamente la povertà di molti: una cosa è parlare di benessere di base necessario alla sussistenza, altra cosa è parlare di povertà come di differenza tra chi ha di più e chi ha molto di meno. La differenza in termini di ricchezza crea di conseguenza una differenza perdurante in termini di possibilità: che i più poveri abbiano di più o di meno, non cambia il fatto che saranno sempre più privi di possibilità degli altri. Il reddito di base, seppure possa garantire qualche base economica in termini di sussistenza, e abbiamo seri dubbi che effettivamente possa, non promuove di certo una società più equa e più giusta. Quello che ho appena descritto, la tipologia di redistribuzione del basic income, è un buon esempio di eguale trattamento (dare la stessa somma a tutti indiscriminatamente, a chi ne ha più bisogno come a chi ne ha meno). Ai fini della libertà, invece, quello che dovremmo fare sarebbe trattare da eguali (garantire a tutti le stesse possibilità anche se con mezzi diversi). L’eguale trattamento promuove un tipo di eguaglianza solo formale e non sostanziale. La libertà può avere un diverso valore per gli individui, e se noi vogliamo promuovere una società libera dobbiamo promuovere una libertà e un’eguaglianza sostanziale. Aumentando il mio patrimonio e quello di Bill Gates, ad esempio, aumenteremmo, in teoria, il valore della libertà di entrambi, ma una società eguale e libera deve mirare a colmare il gap tra i due valori di libertà. Noi non possediamo le risorse petrolifere dell’Alaska, noi possiamo solo riutilizzare i beni in circolo, tassando o togliendo agevolazioni, come ha già ben sottolineato la mia collega. Il reddito di base, quindi, non può funzionare in teoria e nemmeno in pratica, ma soprattutto non tiene conto del rawlsiano principio di differenza che per noi, ai fini di una società libera, è più importante».
Votazione:
Proponenti: 3
Opponenti: 10
Proponenti:
– Il reddito di base è la forma di redistribuzione migliore per riequilibrare le differenze tra i cittadini in termini di ricchezza: la quota di basic income diventa sinonimo della quota originaria di eredità naturale (Paine).
– La proprietà di tipo universale (tutti, indiscriminatamente, sono proprietari delle risorse disponibili) si traduce in un diritto altrettanto universale (tutti hanno diritto alla minima sufficienza e sussistenza).
– Il basic income è una forma di Intervento di tipo aprioristico sulle risorse.
– Il reddito di base tende a promuovere una società più giusta ed egualitaria: fare il benessere dei cittadini vuol dire renderli (economicamente) indipendenti, la dipendenza (economica) vuol dire invece arrendersi a varie forme di povertà.
– La libertà da promuovere è una “libertà da”, un’assenza di impedimenti: il basic income aiuta a rendere gli individui capaci (liberi da vincoli di ogni genere, come la povertà o la disoccupazione) di scegliere come vivere la propria vita.
– Il basic income non è sufficiente ma è una “base” per la libertà: funge da punto di partenza, sotto forma di denaro (quindi di possibilità), perché tutti possano compiere effettivamente scelte libere.
Opponenti:
– Il reddito di base è una politica sociale inadeguata a migliorare le condizioni dei cittadini: le differenze tra ricchi e poveri non vengono colmate dall’attribuzione della medesima quota agli uni e agli altri, ma sono perpetuate.
– L’attribuzione universale della quota di basic income non porta con sé un altrettanto universale attribuzione di libertà: ricchezza e libertà non sono sinonimi, dunque, aumentare la prima non vuol dire garantire la seconda.
– Una buona politica sociale lavora a posteriori sulle risorse esistenti (beni e servizi in circolo) piuttosto che crearne di nuove.
– Il reddito di base tende a promuovere un’eguaglianza e una libertà solo formali, piuttosto che sostanziali: fornisce a tutti un eguale trattamento (una quota di denaro per tutti) invece che trattare da eguali (le stesse possibilità per tutti anche se con mezzi differenti).
– La libertà da promuovere è una “libertà di”, è l’effettiva possibilità di autodeterminarsi nel mondo: il denaro dovrebbe essere investito nel miglioramento delle risorse e dei servizi esistenti (bisogna creare lavoro e non distribuire denaro)
– Il reddito di base, anche se tende a creare una società libera, non è la miglior politica per realizzarla: erogare denaro in una società mal funzionante non è un investimento per le generazioni future, solo una momentanea erogazione di denaro.