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Defending Right and Wrong #1- Quel lontano 29 novembre 2012

Defending Right and Wrong è un esperimento editoriale nato dal bel ricordo di un novembre di qualche anno fa, quando io e tre miei compagni filosofi siamo stati, a nostra volta, i primi protagonisti di un esperimento del nostro professore di filosofia politica, Ian Carter. Quell’autunno ci propose di sostituire la sua lezione del mercoledì con un “dibattito” tenuto da noi: avremmo utilizzato le conoscenze apprese fino a quel momento, e il nostro ingegno, per dare vita ad una piccola arena politica. Non avremmo così imparato, per esempio, cosa gli utilitaristi sostenevano in difesa dell’aborto soltanto dalle sue parole o dalle nostre letture, ma avremmo vestito i panni degli utilitaristi e adottato la loro strategia, o meglio, da utilitaristi ne avremmo messo a punto una nostra. Non si trattava soltanto di un modo per dare una forma nuova al corso, un’idea intelligente e credo necessaria per noi studenti del secondo e terzo anno poco pronti a fare i filosofi in prima persona. Era soprattutto, a mio parere, il modo migliore per raccontare cos’è la giustizia, la metafora più calzante per mostrarne le incongruenze. Ed eccomi qui, ora, seduta nello studio del professor Carter per proporgli una nuova versione della sua idea originale, una versione da leggere e anche, per me, da reinterpretare. Nasce così una rubrica di stampo filosofico-politico dove, attraverso la bella metafora del dibattito, proveremo a raccontare i più diversi problemi del nostro mestiere e una buona parte dei dilemmi quotidiani che fanno continuo capolino nelle nostre vite. E’ una rubrica a più mani, un lavoro realizzato insieme al professor Carter ma anche insieme ai suoi studenti che continuano ogni anno a prendere parte ai suoi dibattiti. Ogni mese presenterò una mozione diversa e il suo relativo dibattito, alternando, ad alcuni realizzati da me e dal professore, altri tenuti dagli studenti. In questo modo, potrò raccontare la genuina spontaneità e al contempo la ratio di fondo che insieme convivono nei conflitti etici e che, con la stessa forza, portano infine ad un compromesso.

Il Conflitto

La mozione che dovevamo discutere quel giorno, “La discriminazione positiva è una forma di razzismo?”, era un esempio di conflitto etico pronto per la discussione. Un conflitto etico è, per definizione, un conflitto tra princìpi dove entrambe le parti pretendono di avere la migliore risposta per risolvere il problema. Immaginiamo due corridori dei 100 metri su una pista di atletica e immaginiamo che in questa gara metaforica i due giocatori partano da due postazioni differenti in base alla loro storia personale. L’ipotesi che la discriminazione positiva potesse essere giusta o menScreenshot (8)o, aveva, da una parte, i sostenitori di un’idea di giustizia fondata sul merito dei corridori in gara, dall’altra, i sostenitori di un’idea dei meriti dei nostri atleti dettati dal caso e dalla fortuna che era loro capitata. Nel primo caso, quindi, i difensori del merito avrebbero giustificato una posizione di vantaggio di un corridore rispetto all’altro perché egli se l’era giustamente meritata, nel secondo caso, gli oppositori avrebbero cercato di compensare lo svantaggio del secondo corridore e far partire entrambi dalla stessa postazione, questo perché per loro il merito è frutto di una serie di circostanze che qualcuno ha la fortuna di vivere e qualcun altro no (per saperne di più: “Il curioso caso del merito”). Ad entrare in competizione erano quindi due idee della giustizia molto diverse tra loro ma entrambe degne di essere prese sul serio. In un conflitto etico lo scontro non nasce per forza da un difetto di una delle parti, ma dal diverso punto di vista che queste assumono, così, il primo corridore aveva le proprie ragioni tanto quanto il secondo, ed è per questo che parlare di “risoluzione” di un conflitto diventa molto difficile.

La risoluzione del conflitto

Qual è il modo giusto per risolvere un conflitto di questo tipo? Quale risposta richiedeva la mozione sulla “giustizia” o meno della discriminazione positiva? Avevamo da un lato, quindi, chi credeva fosse giusto dare agli uomini in base ai propri meriti, dall’altro, chi invece considerava giusto dare un po’ a tutti a prescindere dai loro meriti. Come decidere allora cosa fare con i nostri corridori? Risolvere questo conflitto non voleva dire stabilire quale delle posizioni fosse “giusta” o la più “giusta”: occuparsi di indagare la verità delle due prospettive è compito di ambiti diversi dal nostro. Quando si lavora al livello dell’etica pubblica, invece, l’obiettivo è “costruire un dialogo” tra i punti di vista in conflitto, dove il “progresso”, l’eventuale accordo raggiunto, avviene attra16933966_1442550025775353_1296442269_nverso l’argomentazione, il continuo confronto dei punti di vista i gioco. Nella mozione questo presupposto era molto chiaro: quando ci veniva chiesto se la discriminazione positiva fosse o meno giusta era scontato che ogni parte avrebbe avuto le proprie ragioni ed era doveroso per entrambe metterle a confronto. Quello che ci veniva chiesto era di fare giustizia procedurale: di cercare, nel modo migliore che conosciamo, di pervenire ad un accordo.

Fare “giustizia procedurale” vuol dire utilizzare una procedura “giusta” per risolvere un conflitto e non affidarsi a procedure “scorrette” come il classico ricorso alla manipolazione al fine di “convincere”, in maniera poco pulita, gli avversari delle proprie idee. La procedura migliore perché le varie idee della giustizia possano davvero entrare in un genuino conflitto tra loro è farle “dibattere”. Il dibattito è un metodo “giusto” di risoluzione dei conflitti etici perché le parti chiamate a confrontarsi possono farlo da pari a pari su un terreno dove il principio del contraddittorio è legge. Se non è nostro compito decidere quale parte sia la migliore in assoluto, possiamo allora scegliere, caso per caso, quale parte funzioni meglio. In un dibattito, tutte e due le idee della giustizia argomentano in proprio favore e sfoderano le loro migliori strategie, e sta in questo la vera “risoluzione” di un conflitto: la giustizia, nelle sue varie forme, si racconta e si spiega al pubblico che può quindi comprenderne tutti i punti che fino ad allora non aveva considerato o aveva frainteso. La vera risoluzione sta nell’argomentazione, nella capacità delle teorie politiche di mettersi alla portata di tutti, di sforzarsi sempre più di risolvere le proprie incongruenze per poter risolvere poi i dubbi del proprio pubblico. L’eventuale compromesso raggiunto sarà una scelta tra le argomentazioni dei proponenti e degli opponenti, che avranno fatto del proprio meglio per mostrare la validità del proprio punto di vista e delle politiche che vi corrispondono. Così, nel nostro caso, la gara metaforica fu disputata dai nostri atleti partendo dalla medesima postazione perché il nostro confronto portò a quel risultato; su chi vinse infine la corsa dei 100 metri, non sapemmo mai nulla.

Il dibattito: dettagli tecnici e ricordi sparsi

A fine ottobre di quel lontano 2012, il professor Carter scrisse su un foglio quattro mozioni e lo lasciò sulla cattedra, in attesa che i timidi volontari vi apponessero i loro nomi a fine lezione. Così, io, Costi (Costanza Porro), Cassa (Paolo Cassani) e Pani (Federico Pani) scrivemmo i nostri per la prima delle mozioni. Avremmo dovuto dividerci a nostra volta tra proponenti e opponenti: io e Cassa scegliemmo di parlare contro la mozione, Costi e Pani a favore. Le nostre scelte non erano motivate da un’inclinazione personale ma prese perché ognuno doveva avere una parte, e perché in fondo nessuno di noi conosceva così bene l’argomento per poter vantare una forte opinione in merito. A parlare avrebbe cominciato il primo proponente, Costi che, in un discorso di sette minuti precisi, avrebbe introdotto il problema dal suo punto di vista, spiegato i concetti fondamentali che poi avrebbe utilizzato, e delineato la posizione e la strategia della sua squadra. Così avrebbe fatto dopo di lei Cassa, il primo opponente, negli stessi tempi e con le stesse modalità. Sarebbe poi toccato al secondo proponente, Pani, che, in cinque minuti, non avrebbe dovuto soltanto ricalcare i punti introdotti dalla sua compagna ma anche rispondere alle iniziali argomentazioni della controparte. E infine sarebbe toccato a me intervenire, il secondo opponente, ultimo giocatore in questo “scontro” intrecciato. Il mio compito era quello di portare a compimento le argomentazioni del mio compagno di squadra, aggiungerne ulteriori e, come tutti gli altri, rispondere alle accuse della parte contraria. Sia gli opponenti che i proponenti avevano un nucleo argomentativo proprio, punti di forza e punti deboli, ma “dibattere” non voleva dire soltanto fare un’opera di oratoria: i nostri discorsi dovevano essere flessibili e pronti per essere rivisti, così come noi dovevamo essere pronti a reagire agli imprevisti del caso, tra noi quattro, e poi con il pubblico. Alla fine dei nostri quattro interventi, infatti, sarebbe toccato al pubblico intervenire e, infine, ci avrebbe valutati. A vincere fummo io e Cassa con 15 voti contro 10, ma in realtà tutti e quattro conserviamo con affetto e soddisfazione il ricordo di quel giorno. Fu una delle nostre prime esperienze vere da filosofi e ringrazio il professor Carter per avercene dato l’opportunità, a nome mio e dei miei compagni di dibattito che, ancora oggi quando li rivedo, ricordano quella mattina quando per miracolo non eravamo in ritardo, i discorsi ripetuti mille volte in Caffè per rientrare nei tempi previsti, la nostra cura nel vestirci bene per l’occasione, e il ritornello rawlsiano che in ogni assurdo momento della giornata cantilenavamo: “il merito è un fattore moralmente arbitrario”.

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