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Dandora: la vita nella baraccopoli tra miseria e speranza

Nairobi, capitale del Kenya, ha una popolazione di circa 4 milioni di abitanti (Milano ne conta circa 1,3 milioni): tra il 60 e il 70% di queste persone vive negli slums, distese di baracche ed edifici fatiscenti dove la povertà raggiunge i livelli più estremi. Queste baraccopoli si sviluppano attorno alla discarica di Dandora che si estende per 30 acri, circa una decina di campi di calcio di rifiuti variamente tossici. Uomini, donne e bambini delle baraccopoli lavorano nella discarica, cercando materiali riciclabili e vendendoli alle industrie, ricavando, nella maggior parte dei casi, più o meno un dollaro al giorno.

Parlando con le persone si ascoltano storie di vita drammaticamente simili: molti migrano dalle campagne per sfuggire alla fame e si ritrovano a combatterla comunque, ma in un ambiente molto più inquinato e dove la violenza non risparmia nessuno, né donne né bambini. Ogni baracca, un termine fin troppo lusinghiero per la maggior parte di quegli alloggi, funge da riparo a molte più persone di quante ne potrebbe contenere. I servizi igienici sono molto difficili da trovare e comunque, con il buio, risulta troppo pericoloso raggiungerli, soprattutto per le donne; così le condizioni igieniche nello slum sono terribili, considerando che ovviamente le fogne non esistono. Ma la visione più lacerante è quella dei bambini di strada: i kenioti li chiamano chokorà, bidoni, rifiuti in swahili. Questi piccoli orfani sono costretti a sopravvivere di elemosina e piccoli furti, e sono abituati fin da bambini a cercare scampo dalla fame, dalla violenza, e dalla paura nell’alcol e nelle droghe.

Diversamente da quanto si possa pensare, Dandora non è solo disperazione, anzi entrando nelle scuole disseminate per le strade di terra rossa delle baraccopoli, si respira quel misto di ingenuità e fiducia che solo i bambini, in un contesto simile, possono avere. Tutti in fila per l’alzabandiera del venerdì, fieri nelle loro uniformi bucate e rattoppate, gli studenti cantano l’inno nazionale prima di iniziare le lezioni. Dentro la scuola nessuno è diverso, nessuno è povero, orfano o sieropositivo; tutti sorridono, giocano e soprattutto ballano. Qualsiasi bambino che incontrerai in una scuola, in una casa o anche per strada inizierà a ballare, semplicemente perché è pieno di energia e di speranza e non sa come esprimerla se non muovendosi a ritmo. Parlando con loro si scopre che qualcuno vuole fare il poliziotto, il maestro o il sacerdote perché credono che sia necessario aiutare gli altri. Non per questo si deve pensare che questi bambini o ragazzi siano troppo piccoli per capire: il rischio di essere rapite di notte per essere date in sposa o di essere portati via per essere venduti come forza lavoro fa crescere molto in fretta. Semplicemente loro, nonostante le brutture della loro vita, credono nella possibilità di cambiarla, piano piano, partendo dalle cose piccole, dalla gentilezza quotidiana, dai piccoli gesti di solidarietà, dall’impegno saldo nel rispetto delle regole e soprattutto della dignità dell’altro, chiunque esso sia.

Gerardo Fortino, fotografo che ha compiuto un reportage nelle baraccopoli di Nairobi, ha definito questa realtà come “l’inferno dei vivi” e forse aveva ragione. Entrare a contatto con una realtà simile non può lasciare indifferenti. Ma dopo lo sdegno viene la consapevolezza che c’è comunque qualcosa da imparare anche dai più “miseri della Terra”. Quando conosci una persona che non ha nulla comprendi quando sia importante l’altro. L’unica cosa che gli abitanti di una baraccopoli possiedono è l’altro: nessuna relazione sarà vissuta in modo più pieno, autentico e sincero di quella che costituisce l’unica ricchezza per qualcuno. L’amico, la famiglia, l’amato assumono un’importanza che è estranea a chiunque abbia più di ciò che gli è necessario. E forse questo è proprio quello che gli uomini, le donne e i bambini che vivono quotidianamente in una condizione di totale miseria possono testimoniare a quella parte del mondo che crede che le persone povere e analfabete non abbiano nulla da insegnare: i legami affettivi sono il fondamento della sopravvivenza e, molto spesso, della felicità.

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