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Covid-19: in Medioriente l’orologio segna mezzogiorno – Prima parte

Dal Marocco all’Iran: dove eravamo rimasti? 

Un orologio da taschino che segna le dodici in punto, sullo sfondo il mercato completamente vuoto di Najaf, Iraq. Un altro orologio, questa volta da polso, appoggiato nella piazza davanti all’anfiteatro romano di Amman, Giordania. Lancette sul mezzogiorno, piazza deserta. Foto scattate da abitanti del posto all’ora di punta, durante i primi giorni di messa in atto delle misure restrittive per la lotta al Coronavirus.

Sono arrivati, in data 10 aprile, a quasi 130mila i casi accertati (anche se bisogna ricordare che i dati di cui siamo in possesso sono scarsi e registrati senza particolare accuratezza) di contagio da Covid-19 in quell’area di mondo che chiamiamo comunemente Medioriente. Un’area geografica vastissima, che tocca due continenti (l’Asia e l’Africa) e che siamo abituati a pensare come un unico grande calderone dove entrano ingredienti di ogni sorta: conflitti, instabilità, petrolio, terrorismo, regimi autoritari, rivoluzioni, crisi umanitarie. In generale, un vero caos, che ha origini storiche, sociali, politiche e anche culturali profonde.
L’emergenza sanitaria mondiale rischia, adesso, di ingigantire i problemi che già flagellano questi paesi e far quindi crollare il precario equilibrio in cui si trovano.

Quando ci si riferisce ai paesi del Medioriente, si intende frequentemente tutta la zona geografica compresa nell’etichettatura MENA (Middle East and North Africa):
AlgeriaBahrainEgittoIranIraqIsraeleGiordaniaKuwaitLibanoLibiaMaroccoOmanQatarArabia SauditaSiriaTunisiaEmirati Arabi UnitiWest Bank GazaYemen. Le fonti di instabilità che governano questa regione sono diverse e già oggi, a distanza di pochi giorni dall’inizio delle misure restrittive nella maggior parte degli stati, si vedono (e prevedono) i probabili tracolli futuri.  

Per meglio affrontare e comprendere ciò che sta accadendo ora e che potrebbe accadere in uno scenario post-Covid, è necessario fare il punto della situazione su ciò che il Medioriente già viveva prima che la “bomba” scoppiasse.  

Sanificazione di una strada a Teheran, Iran (foto AP via Arabnews)

Medioriente, sabbie mobili 

Sono passati appena sei mesi da quando centinaia di migliaia di libanesi sono scesi in piazza a Beirut per protestare contro le nuove tasse e chiedere le dimissioni di tutto il governo, della casta e il crollo di un intero sistema statale basato sul confessionalismo (e cioè in cui l’appartenenza a una certa religione determina diritti, doveri e ruoli nella società, così come le cariche politiche).  
Un anno dall’inizio delle manifestazioni di strada del movimento pacifico “Hirak”, con cui in Algeria si è chiesta a gran voce la caduta del regime ventennale del presidente Abdelaziz Bouteflika, ottenuta a fine anno con l’elezione di un nuovo governo democratico tuttora in fase di transizione. 

A gennaio è stato ucciso in Iraq da un attacco via drone ordito dagli Stati Uniti il generale iraniano Qasem Soleimani: l’evento ha riassettato totalmente gli equilibri dello scacchiere geopolitico, gettando il globo nella psicosi dello scoppio di una terza guerra mondiale. Di fatto, però, già prima dell’uccisione di Soleimani, secondo solo al presidente Hassan Rouhani, l’Iran versava in una difficile condizione economica dovuta alle restrizioni imposte da UE e USA nella gestione del nucleare. Le misure si erano inasprite tra il 2018 e il 2019 con la decisione del presidente americano Donald Trump di uscire dall’accordo internazionale, gettando la Repubblica islamica dell’Iran nella recessione economica. A seguito dell’uccisione del generale e della risposta missilistica iraniana contro le basi militari americane in Iraq, all’inizio di quest’anno la situazione si è aggravata tanto che a marzo le sanzioni hanno messo totalmente in ginocchio l’economia del paese arabo.  

Manifestanti iraniani dopo l’assassinio del generale Soleimani (Foto ANSA/EPA)

Nel nord della Siria (in particolare a Idlib, ultimo focolaio di battaglia) continuano gli scontri che coinvolgono i ribelli jihadisti, l’esercito siriano e l’esercito turco. Le condizioni di vita sono peggiorate drasticamente, centinaia di migliaia di civili – tra cui 500mila bambini – hanno lasciato la città e il paese. A fine febbraio il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha aperto le frontiere tra Grecia e Turchia, provocando uno spostamento di massa dei rifugiati che hanno cercato di entrare in Europa e subìto la risposta armata greca. 

Altri conflitti andavano avanti anche in Yemen, dove in quattro anni di guerra tra coalizione araba a guida saudita e gruppo armato degli Huthi sono morti circa 100mila civili. Ora, pare si sia ottenuta una tregua di due settimane in concomitanza con lo scoppio dell’emergenza Covid.
In Libia, invece, non si sono mai fermati gli scontri tra la fazione del generale Khalifa Haftar, alla guida dell’esercito nazionale libico e appropriatosi del territorio della Cirenaica, e quella del premier Fayez al-Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale e insediato a Tripoli. La crisi attuale è uno strascico della guerra civile cominciata nel 2011, subito dopo l’uccisione dell’ex primo ministro Muammar Gheddafi. 
Nella Striscia di Gaza e nei sobborghi delle sviluppate megalopoli di paesi arabi come l’Egitto, le condizioni di vita della popolazione sono difficili, ridotte allo stremo. Scarseggiano l’acqua, il cibo, l’igiene e manca la corrente elettrica.

Rifugiati siriani a Idlib (foto di Aref TAMMAWI / AFP)

Tutti paesi, questi, in cui negli ultimi anni si è preferito spendere per acquistare armi e attrezzature militari, piuttosto che investire sulla costruzione e l’equipaggiamento di strutture sanitarie adeguate. Quindi, adesso che servirebbero, quelle strutture non ci sono.

Una regione flagellata da conflitti e crisi umanitarie, dall’espandersi a macchia d’olio di cellule terroristiche, da grane finanziarie e recessione economica dovute ai debiti con stati esteri. Dall’andamento dei mercati azionari, oltre che di quello del petrolio (le economie di tutti i paesi del Golfo si basano sulla compravendita del greggio, e ogni minima oscillazione del prezzo causa reazioni a catena in tutta l’area). Da moti e insurrezioni sociali, come l’ondata di rivolte tra 2010 e 2012 che presero il nome di “primavere arabe”, da continue ingerenze straniere che storicamente hanno perseguito, quasi sempre e da sempre, i propri interessi causando più danni che vantaggi.
L’investimento sulla compravendita delle armi ne è un esempio: proprio nel mese di febbraio ha fatto scalpore la notizia della vendita di armamenti all’Egitto di al-Sisi da parte dell’italiana ex Finmeccanica (Leonardo). Navi da guerra, elicotteri e caccia venduti a un paese che si è macchiato ripetutamente di violare qualunque diritto umano e che grazie a questo genere di preferenze negli investimenti (l’ultima spesa per armamenti è costata circa 9 miliardi alle casse dello stato) ha lasciato abbandonate a loro stesse le poverissime periferie del Cairo. 

Come ultimo, ma non per questo meno rilevante, tassello del puzzle, va ricordato che l’impianto su cui si basa la maggior parte di queste società è una struttura politica e sociale di tipo “poliziesco”: i governi, per quanto possano dipingersi come democratici persino sulla carta costituzionale, presentano di fatto sempre una caratteristica comune, quella di essere particolarmente autoritari e restrittivi. Basta leggere i dati riguardanti gli arresti arbitrari di attivisti, giornalisti, artisti e civili in paesi come Egitto, Marocco, Siria ed Emirati Arabi nei soli primi due mesi del 2020.

La Kaaba deserta a La Mecca (Foto di Abdel Ghani Bashir /AFP)

Cosa succederà ora, con l’obbligo di applicare misure di restrizione anche fisica dovute alla famigerata quarantena da Covid, laddove già non si fatica a calpestare la parola, il pensiero, la libertà, diritti individuali? Solo nella prima settimana di emergenza sono stati arrestati e messi a tacere giornalisti che parlavano del virus per mettere al corrente la popolazione di ciò che stava accadendo: emittenti e licenze per le agenzie di stampa sospese in Iraq, redattori arrestati in Egitto, Algeria, Siria, Israele, giornali messi al bando in Iran.  

Viene quindi da chiedersi quali saranno le conseguenze a breve e lungo termine della crisi, partendo da questi presupposti per raccontare un territorio che difficilmente si prova a comprendere e che da sempre è stato male interpretato, fino a essere trasformato in un’intricata foresta di mangrovie con tanto di sabbie mobili. 

Claudia Agrestino

Sono iscritta a Studi dell'Africa e dell'Asia all'Università di Pavia. Amo viaggiare e scrivere di Africa, Medioriente, musica. Il mio mantra: "Dove finiscono le storie che nessuno racconta?"

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