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Coronavirus e ambiente: cosa possiamo imparare dalla storia

Durante gli ultimi mesi si è verificato un punto di rottura che lascerà un’impronta indelebile nella memoria collettiva: la pandemia di Coronavirus. Nulla è stato risparmiato dagli stravolgimenti dovuti all’emergenza, dalla sanità all’economia, dalla vita sociale all’istruzione e, indirettamente, anche l’ambiente.
Agenzie nazionali e internazionali per il monitoraggio dell’atmosfera stanno studiando l’impatto delle misure adottate dagli Stati sull’inquinamento. I dati sembrano suggerire un generale miglioramento, eppure questa situazione potrebbe non giovare al nostro pianeta come speriamo.

La questione risulta, infatti, più complicata di come appare a un primo sguardo. Questo perché, per valutare quanto effettivamente incidano le restrizioni imposte alle attività sulla concentrazione di agenti inquinanti, bisogna valutare tanti fattori – meteorologia in primis – e avere a disposizione una mole di dati adatta agli scopi statistici. Dati che al momento, visto che siamo ancora nel mezzo della pandemia e non sappiamo quanto a lungo durerà, non possiamo avere.
La IAS (Italian Aerosol Society) ha pubblicato il 20 marzo scorso una nota informativa in cui sottolinea come sia ancora prematuro trarre conclusioni scientifiche, dal momento che il nostro è un sistema complesso in cui non sempre una semplice correlazione è interpretabile come un rapporto causa-effetto.

Facciamo un esempio: le cosiddette “zone rosse”, i primi focolai dell’epidemia, sono anche quelle più inquinate. Questo significa che le polveri sottili causano una diffusione maggiore del virus, magari fungendo da “trasportatori” di molecole? A quanto dichiarato dalla IAS, no. Non ci sono ancora evidenze empiriche che confermino questa ipotesi. In questo caso, quindi, la semplice correlazione tra zona inquinata e zona rossa non indica che le PM (piccolissime particelle di materia presenti nell’aria) causino un’ulteriore propagazione del virus.

Il calo delle emissioni di biossido d’azoto in Europa (fonte ESA)

Data la complessità dello studio del fenomeno, IAS e le varie ARPA (Agenzia Regionale Protezione Ambiente) del territorio italiano invitano ad interpretare con cautela i dati disponibili, anche nell’ottica di non creare eccessi di ottimismo o pessimismo per quelle che, dal punto di vista scientifico, sono solo congetture.
Non sarebbe, inoltre, scientificamente corretto neanche pensare che i blocchi per il Coronavirus abbiano ridotto l’inquinamento generale.
Attualmente, le informazioni che abbiamo provengono in gran parte dagli studi condotti sul caso della Cina, e ci indicano che il lockdown ha contribuito alla diminuzione solo di determinati agenti inquinanti, quelli connessi ai settori più colpiti da restrizioni: i trasporti e l’industria.

Il CREA (Center for Research on Energy and Clean Air) stima che le emissioni di anidride carbonica in Cina siano diminuite addirittura del 25% rispetto allo stesso periodo del 2019, a causa del crollo del consumo di elettricità e del calore proveniente dagli stabilimenti industriali.
Per quanto riguarda invece l’Europa, l’EEA (European Environment Agency) per adesso ha confermato il calo notevole delle concentrazioni di biossido d’azoto, che ha come principale fonte il traffico dei veicoli.
Le emissioni globali sono diminuite del 6%, ma già negli scorsi anni nel periodo tra febbraio e marzo erano stati registrati degli abbassamenti graduali della curva di emissioni. Le misure straordinarie applicate nel 2020 hanno evidentemente agito da amplificatori.

La storia recente ci insegna però che questi dati, sebbene positivi, possono portare a conseguenze decisamente meno positive nel lungo termine. Basta guardare agli ultimi cinquant’anni: per far ripartire l’economia dopo le crisi, gli Stati hanno sempre intensificato lo sfruttamento già spasmodico di risorse naturali e umane.

Il seguente grafico elaborato da CICERO (Centre for International Climate and Environmental Research) mostra chiaramente come nel lungo periodo le emissioni di CO2, rappresentate sull’asse verticale, siano cresciute insieme alle attività economiche, rappresentate sull’asse orizzontale.

La prima brusca discesa di emissioni globali è stata rilevata nel 1973, seguita da un’altra nel 1980. Nel primo caso, le relazioni internazionali erano appena state profondamente scosse dalla guerra del Kippur, combattuta tra Israele e la coalizione Siria – Egitto e alla quale era seguito un aumento vertiginoso dei prezzi del petrolio. Il periodo di austerity che seguì fu caratterizzato da un contenimento drastico del consumo energetico, forzato da motivi finanziari. Con il freno dell’industria anche le emissioni calarono fortemente, riprendendo però l’anno successivo, accompagnate da tassi ancora più alti di CO2 immessa nell’ambiente.
Nel 1979 si verificò una dinamica simile sul mercato internazionale: in questo caso, la causa dell’aumento di prezzo del petrolio era stata la rivoluzione iraniana, sfociata poi nella guerra con l’Iraq nel 1980. Seppur di minore durata, la crisi ebbe effetti molto simili a quella del ‘73, ossia dapprima positivi e poi di nuovo nocivi per l’ambiente.

Lo stesso discorso vale per tutti i casi seguenti: la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991 causò il crollo dell’economia russa, che registrò un abbassamento delle emissioni di gas serra provenienti dalla produzione alimentare, dal commercio di generi alimentari e dalle terre coltivate. Tra il 1997 e il 1998 le crisi finanziarie asiatiche ebbero ripercussioni sull’economia e sul piano sociale, portando in un primo momento a una contrazione dell’impatto ambientale delle industrie. Tuttavia, in quel decennio le gigatonnellate di CO2 non accennarono a scendere, anzi, passarono da poco più di 20 a 25.

Stati Uniti, 1973: Leon Mill, gestore di un benzinaio, annuncia che il carburante è finito.

Il denominatore comune di tutti questi eventi critici e di quelli successivi è stato il precipitoso aumento della produttività non appena le condizioni lo hanno permesso, e il Coronavirus rischia di essere semplicemente un altro anello di questa catena.

Lo strascico di anni di politiche incuranti dell’ambiente è ingombrante e difficile da eliminare. Ad avere un ruolo fondamentale per risollevare in modo sostenibile gli Stati colpiti dall’emergenza, saranno le decisioni prese una volta che si sarà conclusa. Se a prevalere saranno di nuovo i massimi profitti, a costi sociali e ambientali spropositati, avremo perso tutti un’occasione per imparare a vivere in modo diverso, magari meno “comodo”, ma più rispettoso del pianeta e di tutti i suoi abitanti.
Per troppo tempo abbiamo sperperato e iper-sfruttato risorse limitate. Ora è arrivato il momento di cambiare, trasformando la triste pagina di storia che stiamo vivendo in un’opportunità di miglioramento. Forse, uno degli insegnamenti più importanti da custodire è che un sacrificio collettivo sia necessario, ora più che mai, per uscire dalle crisi. Solidarietà, empatia e gesti concreti sono gli strumenti di lotta per un mondo meno diseguale e inquinato.

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