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Coppie Minime di Giulia Martini – Come dire amor de lonh

Di amor de lonh leggo se ho di fronte Coppie minime, la raccolta di poesie di Giulia Martini, pubblicata nel giugno scorso per Interno Poesia. Ne parlo dopo aver ospitato su Inchiostro un suo inedito corredato del bellissimo quadro La resurrezione di Lazzaro di Caravaggio. Così recita la seconda metà del testo:

Così ti accade quando trovi un suono
che resta un personaggio senza nome
in bilico tra Marta e Maddalena –

unito dalla traccia del poema
in quella sola, grande indecisione,
come le due convessità di un raggio.

E così, subito, in retromarcia fino a La traccia del poema, quattordicesima poesia delle Coppie:

La traccia del poema
modulata su un suono
mi sembra la tua faccia.

Appare la facciata
del Duomo in piazza Duomo
come un grande problema.

Per intertestualità manifesta, senza apportare particolari prove. Questa breve nota di lettura si propone di evidenziare solamente e solamente alcune delle peculiarità stilistiche della scrittrice, in vece di una caratterizzazione impossibile senza un lavoro adeguato, in funzione anzi di corollario in sua absentia. Comunque, si dirà fino a prova contraria durante la nota e a conclusione l’idea di fondo complessiva che pare emergere dal testo.

In primo luogo, cosa informa il testo: l’amor de lonh, e dico così 1) perché la letteratura romanza è sostrato culturale imprescindibile per Martini: quando Rudel è citato letteralmente in explicit «Lanquan li jorn son lonc en mai» (in parallelo alla citazione, nel testo precedente, di Dante: «e reducemi a ca per questo calle», e in anticipazione del verso di Poliziano, quasi fosse in progetto una riproposizione della petrarchesca Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi); quando continua è la pratica delle coblas capfinidas (anche se di coblas non si parla nella maggior parte dei casi, ma di poesie singole), per esempio «Pur Iulio Iulio suon il gran diserto» e subito dopo «Deserto come sfondo del tuo desktop» e «diventi l’astro del mio disastro» con «Da quale astro alla mia stalla?»; quando certo lessico è romanzo, o «latinobarbaro». 2) perché la scrittrice parla di e con una donna assente, lontana, un essere che si sottrae, forse non subito ontologicamente (come è da tradizione), ma perché la relazione è avvenuta, c’era («sono già in treno di dimenticarti») e ora si è conclusa (la linea del «mezzogiorno» tanto citata soprattutto nella seconda parte del libro mi sembra proprio l’indicazione temporale, ma potrei sbagliarmi). E così infatti: «Mi piace persino la tua figura retorica: / un’insormontabile reticenza».

In secondo luogo, cosa informa lo stile: 1) le forme e la metrica tradizionale, prevalentemente, con uso moderato della rima (anche quasi-rima, rima ipermetra…). 2) la lingua mossa su fenomeni iterativi non solo, o esclusivamente, consonantici e vocalici (cioè di singola lettera) ma dalla coppia (o sillaba) in su, nella direzione di una resa spesso circolare del testo, fino alla ripetizione di parole o sintagmi in serie («è l’ora, è l’ora, è l’ora […]»; «campi come / campi come», con ambiguità semantica; «m’insinua una pulce nell’orecchio / che gracchia: / tu tu tu tu tu…»), pure frasi interi caratterizzate dalla variazione minima («Se in conti non tornano, figuriamoci il re / Se i conti non tornano, figuriamoci te»). Paronomasia, omoteleuto e omeoarto, rima interna ed esterna «e così via, e così via dicendo»:

a seminarti altezze fra le app
e apparire grano e pastorizia
libera pascolare senza password
le dune dell’ambiente operativo.

in chiasmo. In generale, mi sembrano due gli apici del procedimento. a) Una direi rima ma è ripetizione (sdoppiata, omeoarto-omoteleuto) con crasi anticipata, certo imperfetta: «morali della favola, cruori / e cruciverba e redentori a iosa»; «Mi mitigo / il tuo deserto con moti per luogo»; «batteri o datteri, darteli come ieri»; e programmaticamente nella canzone Voci correlate: «Alchermes / che crea un nesso fra alcool e Ermes». b) una rima reticente, della quale faccio un solo lungo esempio: «Guido io vorrei che Lapo e io e tu / e Tutankamon e Marylin Monroe / ed Edgar Allan [Poe] e il giovane eroe / di quando ero bambina, Harry P.».

Ma la forza (espressionista? Non direi, ma non trovo altro) sul congegno linguistico è impressa anche a livello morfologico, dove è il pane quotidiano l’uso improprio. E nella densità, ecco sì densità, dei testi, contenuti a stento nelle forme brevi (ed è per questo anche che l’oscurità si disperde nelle canzoni conclusive, assolutamente intellegibili e retrospettivamente utili alla comprensione del macrotesto). Per non parlare delle citazioni disseminate, dello scarto linguistico diatopico, diacronico eccetera: fra tutto, lo switch linguistico (romanzo, italiano, latino, inglese tecnico e non tecnico…) – con accoglienza gratuita concessa al lessico oramai corrente del web e dei social.

Infine, la giustapposizione dei piani poetico e metapoetico perché è costante (profonda sì, nell’autrice, ma non ancora primaria nel testo) la riflessione sulla lingua, come termine di paragone o gioco: ad esempio il «figura retorica» menzionato o «Che tu sia qui: lontano congiuntivo», per fare qualche esempio. E non meno s’ascrive la non percepita angoscia dell’influenza (tutt’altro!), e punto più alto nell’adnominatio dei modelli:

Dico la verità: come fai, falli. 
E tu che mi dicevi che eri pura…
Ricordati, spergiura, la Cavalli. 

Concludendo, uno stile di variazione estrema sulla stabilità del tema unico amoroso, unico fantasma allocutorio del testo. Laddove, personalmente, la densità di allenta (dove l’istanza primaria è complementare), il testo raggiunge le vette annunciate (e si conclude davvero allegando i testi in questione), ed è percepibile con più evidenza l’ironia che informa sempre la scrittura:

Beati gli invitati alla cena in via Dernier.
Giravi per le stanze un po’ disabbigliata
apparecchiando di pietanze calde
la tavola rotonda in legno noce
con un occhio alla pasta che non scuoce
e l’altro a un altro – non a me.
_____________________________________________
Ave Maria di gratia plena,
ferma alla fermata dell’autobus
dove aspettiamo e intanto moriemus,
biglietto i mano, per somma gloria
del controllore che tutto vègge.
C’è qualcosa che non regge nell’avena:
ne paghi due, la terza è gratis
come lo spirito in nomine patris
ma non è detto che il figlio ci stia.
Di grazia piena, ave Maria.
_____________________________________________
Poiché non spero di trovar giammai
il portrait che mi facesti en plein soleil,
con la maglietta a righe bianche e blu,
casual ed elegante navy style,
me ne farò rifare un altro uguale –
Giulina cara, questo non lo perdi.
Ma non sarà mai uguale. Il promontorio
non si lungheggia più fino alla costa,
la vista si frange sulla maiuscola
capitale lapidaria GRAND HOTEL,
sul frontone del tempio di Delfi.
Non ho di te che questo dissimile
parassita nella microsim,
che molti in gergo chiamano selfie.

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