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He’s lost Control ?

Control è un film del 2007 sulla vita di Ian Curtis, cantante e leader dei Joy Division. Il regista, Anton Corbijn, fotografo ufficiale di band del calibro di REM, U2, Depeche Mode, all’inizio della sua carriera realizzò alcuni scatti proprio di Ian Curtis e dei Joy Division. A distanza di trent’anni, Corbijn si cimenta in un film che è su Curtis più che sui Joy Division; e infatti gli altri membri della band restano sempre sullo sfondo, con personalità poco (o per nulla) delineate.

Così, in due parole, la trama del film, che coincide con gli ultimi anni della vita di Curtis: l’adolescenza nei sobborghi di Manchester, il matrimonio con Debbie a soli diciannove anni, la rapida ascesa dei Joy Division nell’underground inglese, la nascita della figlia Nathalie, la relazione con Annik, una giornalista belga incontrata dopo un concerto, gli attacchi epilettici in concomitanza con alcune delle ultime esibizioni pubbliche (ma la malattia gli era nota già da tempo), la separazione da Debbie, infine il suicidio, nel maggio del 1980, alla vigilia della partenza per il primo tour negli Stati Uniti.

E’ un tentativo legittimo, quello di ricondurre la biografia di Curtis alla parabola di un musicista precoce e molto dotato, di un giovane marito e giovane padre, di un uomo (un ragazzo) malato di depressione cronica, esacerbata forse dai farmaci anti-epilettici che è costretto ad assumere.

Legittimo, ma fondamentalmente inesatto.

Corbijn sa bene che i vari aspetti della persona di Curtis costituiscono una forma mobile e complessa che come ogni espressione vitale resiste al veicolo cinematografico. Per evitare di piegare la biografia del cantante a uno stravolgimento celebrativo o mitologico, ripulisce la fotografia dalla distrazione del colore (tutto il film è in bianco e nero) e si concentra sulla fisicità agonizzante dell’artista, stabilendo con essa un rapporto che è, inequivocabilmente, erotico (questa fisicità contratta è presente, con eguale forza, in ogni scena del film; e infatti il suicidio nel finale non segna, a confronto col resto, alcun picco di intensità).

Così sentiamo chiaramente che la vita di Curtis non si discosta mai del tutto da una sua coerenza interna e granitica, senza vie di fuga: come un baricentro o un punto di massima densità. Che potremmo forse identificare con l’epilessia. Oppure, meglio ancora, con il riassorbimento dell’esperienza della malattia all’interno di una personalità tanto sensibile quanto può esserlo una ferita nella carne viva.

Il dato malinconico e maniacale che pervade le canzoni dei Joy Division è lo stesso che, riferito a Ian Curtis, ci fa sentire la sua morte come tuttavia più prevedibile del suo opposto. Per questo motivo lo spettatore avverte, suo malgrado, il presentimento di un equivoco, di un grande pericolo – che nella persona di Curtis si sia verificato uno smottamento verso regioni della vitalità che non hanno alcun interesse alla propria conservazione.

Control parla di Curtis nel modo di un’istantanea scattata per caso in un interno domestico – che per il gioco di luci o un certo taglio della scena o per la nudità dimessa del proprio soggetto ci fa credere di averne fissato la forma essenziale. Al tempo stesso, però, non deve sfuggirci il vertiginoso paradosso di ogni inquadratura ravvicinata rispetto al proprio soggetto: di mostrarcelo in modo violentemente intimo e insieme inafferrabile. Soprattutto se, come in questo caso, il suo sguardo sembra scivolare verso un punto lontanissimo alle nostre spalle.

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