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COACH POP IN WONDERLAND

A long time ago in a NBA galaxy far,

far away…

1997. Draft NBA. Gregg Popovich, un dirigista dell’Indiana, al comando in quel di San Antonio, Texas, sta per chiamare a sé la storia. Timothy Theodor Duncan è la prima scelta assoluta. Tim è una persona molto, molto speciale; ancora oggi, guardandolo negli occhi, trasmette un misto di emozioni che nemmeno “La gioconda” suscita: non puoi decifrarlo, semplicemente ne rimani soggiogato. È universalmente riconosciuto come una delle più forti ali grandi della storia. Pensare che non doveva nemmeno giocare a basket; è solo per colpa dell’uragano Hugo, che nel 1989 distrusse i pochi impianti balneari di Saint Croix, Isole Vergini, che iniziò a cimentarsi nel gioco della palla a spicchi. Anche se come abbia fatto a diventare così forte, guardando la qualità dei campi di allenamento in cui emetteva i primi vagiti cestistici, resta un mistero. Ma il terremoto più grande nella vita di Duncan è sicuramente la morte della madre, alla quale era molto legato: lei lo ha sempre incoraggiato, in ogni cosa che faceva, andando alle gare del figlio e portandolo al campo di allenamento o in piscina. Da quel giorno, complice anche una laurea in psicologia, ha completamente smesso di dare al mondo la possibilità di conoscere le sue emozioni. Dalla prima palla a due alla fine dei quarantotto regolamentari, dentro e fuori dal campo, sempre e comunque, con la stessa espressione.

Il primo incontro tra Pop e Tim non può essere nient’altro che epico: due così nascono ogni due o tre generazioni e il fatto che si incontrino per poter creare qualcosa insieme è una vera e propria sfida alla gaussiana. Coach Pop si reca per due giorni nelle Isole Vergini, per conoscere meglio il rookie che San Antonio sta per scegliere. In quarantotto ore, e questa è abitudine di Pop, i due non parleranno una sola volta di pallacanestro.

popovich_duncanAndranno però a farsi una nuotata.

– «Coach, andiamo a farci una nuotata in mare aperto?»
– «Certo Tim, nessun problema».

La risposta di un ex agente della C.I.A. a un ventenne che sarebbe dovuto andare a Barcellona 1992, specialità 400 stile. Pop, che da a Tim quasi trent’anni, arrancherà nel Mar dei Caraibi tenendo però testa al giovane Duncan.

Da quel giorno i due non si sono più separati. Dal 1997 a oggi i San Antonio Spurs sono la franchigia più vincente nei quattro principali sport americani: più del 70% di vittoria. E per il cruciano che doveva fare il nuotatore la bacheca trofei dice cinque titoli in sei finali, tre volte MVP delle finals e due volte della regular season.

Benvenuti a Pyongyang, provincia di San Antonio.

La miglior squadra, numeri alla mano, degli ultimi anni; ma record e classifica sono nascosti ai giocatori: non devono conoscerli. Non c’è un solo luogo nel centro sportivo degli Spurs che li contenga. In quel del Texas vige, infatti, un regime totalitario, dove ogni culto della personalità è vietato. Solo Popovich, essendo de facto il monarca della squadra, può fare ciò che vuole, ovviamente sempre per il bene dell’organizzazione. Ha la facoltà, ad esempio, e ciò avviene regolarmente verso febbraio-marzo, di farsi espellere di proposito: la squadra si compatta e Pop lascia le redini al vice-allenatore (da quest’anno, il delfino è l’italianissimo Ettore Messina). Ma può anche decidere di perdere di proposito una partita o di non portare i migliori giocatori a una gara. Oppure, in un teatrino politico con il suo sodale Duncan, fingere una litigata; quando Tim superò Larry Bird per punti segnati, arrivata la torta all’allenamento, Popovich, una volta venuto a conoscenza del motivo dei festeggiamenti, disse seccato: «Ma se avesse saputo tirare bene i liberi lo avrebbe già superato da un paio d’anni. Via la torta!».

Il tutto è un modo per motivare i giocatori, per spronarli a fare sempre meglio; “Good to great” è la filosofia del sistema offensivo degli Spurs: «Lasciare un buon tiro per prenderne uno migliore». Dentro e fuori dal campo. Uno scacchiere, dove Pop muove le sue pedine, ognuna delle quali ha un ruolo preciso; perché, come diceva Jacob Riis, sindacalista di inizio novecento, ispiratore del metodo di lavoro della franchigia, la pietra non si rompe per merito del centesimo colpo, ma anche, e soprattutto, per i precedenti novantanove.

Una sfida continua, con se stessi per i giocatori, e con se stesso per il coach. Anche se l’ostacolo più insormontabile per Gregg Popovich è quello intervista_a_popovichdella scelta del ristorante. Il coach, infatti, da perfetto buongustaio, non pone limiti alla buona cucina: il primo va mangiato in un ristorante, il secondo in un altro e il dolce, ovviamente, in un altro ancora; il tutto, ovviamente, con l’unica finalità di consultare le carte dei vini.

I’m the smiling face on your TV,
I’m the cult of personality

Anche se Popovich dà il meglio di sé nelle interviste. E qui, le parole non servono. Silenzio, parla coach Pop… Forse.

 

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Ecco, non pensate però che Pop sia solo freddo, cinico e minimalista. È un uomo molto sensibile e di grande empatia.

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Ma il suo più grande “rivale” è sempre stato Craig Sager con le sue, diciamo, temerarie giacche. «Come faccio a guardare il campo, come faccio ad allenare» con te vestito così a bordo campo, abbiamo giocato male perché «i giocatori stavano guardando il tuo completo», «come puoi essere un professionista vestito in quel modo?» e molto altro.

Lo scorso anno, Sager ha annunciato al mondo di avere una nuova battaglia da combattere, la più importante della sua vita: un cancro, che lo terrà fuori dalle scene.

Per l’occasione Popovich, intervistato da Craig Sager Jr, il figlio dell’eterno (tra mille virgolette, ovviamente) “rivale”, ha così parlato:

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“And I promise I’ll be nice”. O, più semplicemente, coach Pop. Nel suo meraviglioso mondo.

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