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A chi appartengono davvero i personaggi e le storie?

Leggenda vuole che Erika Mitchell abbia scritto le sue numerose storie sul suo Blackberry. Solo per questo (e solo per questo) meriterebbe un elogio. Per chi non lo sapesse, Erika Mitchell – al secolo nota con lo pseudonimo di E.L. James – è l’autrice di 50 sfumature di grigio (e di tutti gli altri colori). Inizialmente però la fortunata serie di romanzi non era pensata per essere una saga a sé, ma una storia minore di un’altra saga, quella di Twilight. Era intesa per essere una fan-fiction, ovvero una storia creata da uno o più fan di una data saga, nella speranza di contribuire anch’egli o anch’ella alla mitologia in questione. Il successo particolare che Erika ottenne nei blog, con i suoi episodi, fu al tempo stesso una piccola rovina e una grande fortuna: rovina perché non le fu più permesso, proprio a causa del suo successo, di usufruire dei personaggi di Stephenie Meyer. Fortuna perché a Erika bastò semplicemente cambiare i nomi dei personaggi e le ambientazioni per evitare censure. Il resto, come si suol dire, è storia. Quello che era iniziato quasi come un tributo a un’autrice famosa, si è trasformato infine in una favola personale coronata dal successo.

Lieto fine? Sicuramente per E.L. James e per tutti gli amanti dello pseudo-erotismo, ma non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe successo se Stephenie Meyer avesse deciso di integrare l’iniziale fan-fiction di Twilight nella sua mitologia. Mi vengono i brividi, ma magari avremmo avuto un universo narrativo e cinematografico ancora più espanso. Sia quel che sia, è indubbio un fatto: non esiste legge sul diritto d’autore sufficientemente efficace da impedire la naturale capillarizzazione delle storie e dei personaggi nel pubblico. Poiché una storia non è mai solo una storia. Storicamente, si tratta di un rapporto complesso quello tra il pubblico e l’autore. Un rapporto di amore e odio che non conosce vie di mezzo, o se preferite “sfumature di grigio (e quando le conosce, nascono romanzi di dubbio gusto, a quanto pare). Pensiamo a Conan Doyle, a Poe, a Verne o alla tragica vicenda del nostro Emilio Salgari, prima, vera e propria vittima della letteratura di massa. Pensiamo alla letteratura a fumetti, e a come il rapporto coi lettori abbia portato alla formazione di personaggi oggi iconici, ma una volta impensabilmente differenti; non raramente infatti molti dei grandi scrittori di fumetti erano stati prima, a loro volta, grandi lettori. E pensiamo infine, perché è di questo che dobbiamo parlare, al cinema e alle serie tv. Difficile immaginare un consumo audiovisivo più di massa di questi due (forse solo i videogiochi, ma ho i miei dubbi). Sì, perché un conto è accontentare o viziare un pubblico dai gusti semplici e prevedibili, ma ben altra questione è quando il pubblico si compatta contro una decisione legittima, sia essa condivisibile o meno. Il 1º giugno di quest’anno, Netflix ha annunciato a (brutta) sorpresa la cancellazione della serie Sense 8, delle sorelle Wachowski e J. Micheal Straczynski. Con le prime due stagioni, la serie non raggiunse mai un successo di critica e pubblico clamoroso come Stranger Things o Orange is the new black, ma evidentemente quanto bastava per avere un fedele manipolo di fan in tutto il mondo. È bastata la cancellazione delle serie per trasformare quel fedele manipolo in un’agguerrita legione. Tanto agguerrita da minacciare di morte i produttori. Ventotto giorni dopo, un altro annuncio a sorpresa: per il 2018 è previsto il rilascio di un episodio conclusivo della durata di 2 ore. Netflix ha dichiarato che la cancellazione era inevitabile per motivi economici: tutti gli episodi infatti sono girati in diverse location intorno al globo, ed è credibile pensare che i costi di produzione non siano stati interamente coperti dagli ascolti. Ma i fan non hanno voluto sentir ragioni e oggi siamo qui a parlare di una presunta vittoria del pubblico sulla dirigenza produttiva. Probabilmente è un bene per la completezza in sé della storia e, chissà, forse gli autori sono profondamente grati al pubblico per questo.

Eppure trovo sia strano, per non dire ingiusto, che dei fan, nel bene o nel male, si intromettano così tanto nelle decisioni, di fatto economiche quanto artistiche, di una produzione audiovisiva. In fondo, se non potevano, non potevano. Altro esempio, il caso della serie Chuck e del product placement con la catena di fast-food Subway, che convinse NBC a rinnovare la serie per una terza stagione. O che dire della serie Jericho, nella quale il «Nuts!» di fine stagione («Noccioline» in italiano ma anche espressione figurata che indica rabbia e frustrazione) ha funto da ispirazione per la campagna di sostegno della serie; una campagna dal peso di 20 tonnellate di noccioline. Sono tutte ingerenze, seppur fatte con le migliori intenzioni, che ci fanno chiedere dove finisca il lavoro degli sceneggiatori e delle case di produzione, e dove inizi quello del pubblico. Meglio, chiediamoci se un personaggio o una storia, una volta creati, siano destinati a rimanere legati per sempre al suo creatore o se, nell’epoca dell’intrattenimento di massa, non sia il caso di parlare di una multi-proprietà intellettuale, non sempre equamente ripartita, tra autori e pubblico. Il randiano che è in me non può che storcere il naso con fare conservatore di fronte al degrado di questa realtà.

Eppure, tre anni or sono, accadde qualcosa capace di smentire il più antipatico dei conservatori. Il 28 Luglio 2014 venne diffuso illegalmente su internet un test-footage, realizzato tra gli altri dallo stesso Ryan Reynolds, di un possibile film di Deadpool. Il video fu prontamente rimosso, ma era troppo tardi. Il popolo esplose, e quella deflagrazione catalizzò la produzione di un cinecomic ancora oggi universalmente riconosciuto come uno dei migliori del genere; e guarda caso fedele a quel personaggio e a quelle storie delle origini. Difficile da credere, ma per una volta il popolo, quel popolo che nel bene o nel male ha l’abitudine di intromettersi nell’arte altrui, ha contribuito come nessuno alla realizzazione di una vera opera d’arte. Forse allora questo spostamento o ribilanciamento tra pubblico e produzione è un fatto molto più naturale di quanto non si voglia ammettere.  Non è né giusto né sbagliato, ma semplicemente inevitabile nelle meccaniche naturali di qualunque cosa che sia “di massa” come cinema e televisione. Forse solo il teatro rimane ancora oggi un prodotto strettamente e fortemente autoriale. Quel teatro dove l’immenso Pirandello, con la sua opera più famosa Sei personaggi in cerca d’autore, nel 1921 aveva già prefigurato questa problematica. Ormai quindi non si cerca più un solo autore ma molti, molti di più, così come i personaggi sono diventati molto più di sei: e tra questi c’è Deadpool.

(Ringrazio il collega di redazione Joe Condor per la fondamentale consulenza storica in materia).

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