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Che cos’è l’estetica? Intervista alla professoressa Serena Feloj

Serena Feloj insegna estetica all’Università di Pavia. Ha conseguito il dottorato alla Scuola di Alti Studi – Fondazione San Carlo di Modena nel 2012, sotto la supervisione di Elio Franzini. È membro di varie società scientifiche fra cui la Società italiana di studi kantiani e la Società italiana di estetica. Recentemente ha curato e tradotto “Disgusto. Teoria e storia di una sensazione forte” di W. Menninghaus per Mimesis (2016) e ha pubblicato “Estetica del disgusto. Mendelssohn, Kant e i limiti della rappresentazione” edito da Carocci (2017) e “Il dovere estetico. Normatività e giudizi di gusto” con Mimesis (2018), oltre a svariati articoli di ricerca e contributi ad altre opere.


di Lorenzo Botta Parandera e Sandra Innamorato

 

Lorenzo: Che cos’è l’estetica?

L’estetica è una disciplina dai confini indefiniti e sempre in cerca di una delimitazione – dalla sua definizione classica a metà ‘700 fino ad oggi. Personalmente parlerei dell’estetica innanzitutto come di una forma dell’esperienza, e ciò ci colloca in un orizzonte particolare: significa non limitare l’estetica alla definizione dell’oggetto e non identificarla con la filosofia dell’arte, ma intenderla in modo più ampio, principalmente come “esperienza”. E ne parlerei come un’esperienza di tipo particolare (e qui non tutti concordano, ma in linea di massima c’è consenso), ossia non dotata di carattere conoscitivo. Per molto tempo la filosofia analitica1 ha provato ad assimilare l’estetica all’epistemologia2, ma negli ultimi vent’anni è stato quasi del tutto abbandonato ogni tentativo (questa assimilazione va ricondotta agli autori più classici, come Nelson Goodman). Quindi, che tipo di esperienza è? Cosa la connota? Io direi che la sua specificità sta nell’essere connotata emotivamente: l’esperienza estetica ci coinvolge e ci porta a un’attribuzione di valore sulla base del nostro vissuto emotivo. Questa è un’interpretazione, la via tradizionalmente definita soggettivista, alla quale in varie epoche si è più o meno sempre opposta la via oggettivista, che intende l’estetica come definizione dell’oggetto, quindi si interroga, per esempio, su cosa faccia la differenza fra un oggetto comune e un oggetto di valore artistico e se sia possibile distinguerli. Le risposte, come vedete, possono essere molteplici.

Sandra: Quali sono esattamente le difficoltà nell’attribuire una definizione?

Le difficoltà sono molte. Ad esempio, stabilire che cosa possa essere identificato come una proprietà estetica. Perché il Brillo Box può stare in un supermercato e costare due dollari, oppure stare in un museo e valerne milioni? Parliamo della stessa scatola. A livello percettivo non c’è nessuna differenza: in termini estetologici, si parla di indiscernibilità dell’oggetto artistico, un problema posto anzitutto dall’arte di Duchamp. L’oggetto quindi è il primo dei problemi, e l’estetica analitica si misura per prima cosa con la definizione dell’opera d’arte: a un oggetto d’arte attribuisco un valore differente da un altro, pur essendo entrambi lo stesso oggetto. Su questo ha lavorato Levinson, un autore molto affermato nel panorama analitico che ragiona in termini di sopravvenienza estetica. Poi ci sono altri temi: il giudizio, per esempio. Si guardava con sospetto a una teoria estetica fondata sul giudizio, mentre, negli ultimi venticinque anni, si sta recuperando un approccio relativo all’attribuzione di valore, superando la dicotomia fra fatti e valori. Un altro tema classico è quello dell’immaginazione, e l’estetica ha cominciato a ragionare su un’esperienza che pone al centro l’attività immaginativa (in tal senso, è interessante la ricerca di Margolis). Inoltre, nell’estetica analitica ha svolto e svolge un ruolo determinante il pragmatismo3: il testo di Dewey Sull’estetica ha avuto un peso rilevante (chi come Margolis si occupa di estetica analitica, si rivolge al pragmatismo).

Lorenzo: qual è il rapporto fra artista e opera d’arte?

Anche qui vi darò il mio punto di vista. Si può dire moltissimo sul tema della creatività, o sulla specificità dell’artista (se esista). Nella mia prospettiva, è importante il tema della riuscita: in base a quali criteri possiamo dire che un’opera d’arte riesce? Diventa centrale il rapporto fra pubblico e fruitore. Io non credo però che esistano regole, intese come canoni, che garantiscano la riuscita. È affascinante quindi il tema dell’indeterminatezza e dell’imprevedibilità. L’espressione artistica può andare incontro al fallimento, per cui è interessante ragionare in termini di aspettativa. L’artista crea e si aspetta una risposta da parte del pubblico, ma non può prevederla secondo regole. È un’espressione, una forma di apertura all’altro. In qualche modo egli crede ed è convinto di poter trovare una determinata risposta emotiva nell’altro. Io credo nel fatto che il rapporto fra artista e opera d’arte sia un rapporto sui generis: non ogni prodotto culturale è un’opera d’arte, esiste una specificità di alcuni oggetti e quindi ha senso parlare di proprietà estetiche in questi termini. Qui forse sono influenzata dai miei studi su Schiller, ma credo anche che l’arte abbia ancora un ruolo importante nella formazione della nostra cultura e che l’artista abbia una profonda responsabilità poiché diviene parte della costruzione del nostro patrimonio culturale.

Lorenzo: e se introducessimo le “somiglianze di famiglia” per definire cosa sia l’opera d’arte?

Certo, alcuni termini wittgensteiniani sono ancora molto utilizzati in ambito estetico. Io farei rientrare questo discorso nella prospettiva della normatività estetica. Credo si diano delle letture troppo forti di essa, quindi bisogna riconsiderarne la definizione. Con normatività non intendiamo solo la definizione dell’oggetto, piuttosto il tema dell’accordo di fronte ad esso. La normatività credo vada rivista e, nei miei termini, di derivazione kantiana ma molto vicini a Wittgenstein, preferirei parlare di regolatività.

Sandra: prima parlava del rapporto fra opera d’arte e pubblico. Vi è un rapporto più stretto fra opera d’arte e pubblico rispetto a quello che c’è fra artista e pubblico, oppure questo è veicolato dall’opera d’arte?

Direi che necessariamente è veicolato dall’opera d’arte. La figura dell’artista è molto importante, penso anche ad alcuni romantici, a Baudelaire, oppure a D’Annunzio. Spesso abbiamo assistito a forme di fruizione che non potevano prescindere dalla personalità dell’artista. Però non credo sia possibile definire una persona “artista” se non esprime. Difficile pensare a un’artista privo di opera d’arte, ma essa non necessariamente è un oggetto. Basti pensare all‘arte come performance.

Lorenzo: Ci piacerebbe parlare di bellezza e delle così dette “categorie negative”.

È una relazione molto interessante. Certo, la si potrebbe liquidare dicendo che inizialmente l’estetica poneva al centro la bellezza, fino a che il sublime non ha aperto la via a tutte le altre categorie estetiche e la bellezza ha perso il suo trono, tant’è che anche l’arte dall’Ottocento non si misura più con la bellezza. La bellezza è stata superata, eppure sono fioriti molti studi della sua definizione negli ultimi anni, anche in Italia. La bellezza non è quindi sparita, essa resta ad interrogare l’estetica in questa sua strana natura, poiché rispetto a tutte le altre categorie è dotata di un’armonia che la rende difficilmente inquadrabile e che rischia di lasciare indifferenti in un panorama dove, per esempio, la produzione artistica è sempre alla ricerca dello shock, del fastidio percettivo. Al momento ci si interroga sulla bellezza come proprietà estetica, quindi ci si chiede se possa essere un valore aggiunto dato all’oggetto fisico. Per quanto riguarda le categorie negative, esse sono utili nell’arte contemporanea. Tant’è che chiamarle categorie negative è improprio. Prendiamo la categoria negativa per eccellenza, il brutto. Certo è negativa e definisce qualcosa di spiacevole, però nel momento in cui è fatta oggetto di un’opera d’arte può diventare piacevole, si può volgere in piacere, con un effetto positivo. Le categorie negative possono essere, secondo me, utili per valutare la varietà e i confini dello spettro esperienziale estetico. In tal senso, è decisiva la categoria del disgusto: l’unica, forse, davvero negativa, che fatica a penetrare la produzione artistica e l’apprezzamento. A mio parere, non è possibile provare una reale sensazione di disgusto tramite l’opera d’arte (posizione, questa, sostenuta dal critico Jean-Claire). Nelle categorie negative, inoltre, si vede ancor più la differenza fra estetica e conoscenza e l’impossibilità dell’assimilazione dell’una all’altra.

Sandra: è possibile definire ciò che è bello come qualcosa di concettualmente ricco di significato? Rispetto all’arte classica, il rapporto con un’opera concettuale è meno immediato. Potrei dire che un’opera è bella perché è carica di significato.

Diciamo che l’arte classica è strettamente legata alla bellezza, a una bellezza che sta nella forma, tradizionalmente riferita alle statue classiche, come anche lei suggerisce. L’arte contemporanea, invece, difficilmente può essere ricondotta alla bellezza. Potremmo dire che la bellezza sta non più nella forma, ma nel contenuto. Ecco, mi chiedo se in quel caso parliamo di “bello”; forse, diremmo più che qualcosa è “interessante”. Nel caso in cui si parli di bellezza del contenuto, parlerei più di interesse.

Sandra: noto allora che spesso usiamo l’attributo “bello” impropriamente nel linguaggio quotidiano; ad esempio, ci capita di dire che un ragionamento o un costrutto linguistico siano belli.

È vero che il termine è spesso usato impropriamente, ma non direi in questi casi. Parliamo di forma anche nei ragionamenti. Se noi diciamo che è bello un costrutto, indipendentemente dal suo significato contenuto, allora direi che lo stiamo usando propriamente. Mi vengono in mente alcuni studi sulla bellezza matematica delle dimostrazioni. Parliamo di forma in questo caso. Forse parlare di “proprio” e “improprio” è un modo rigido; possiamo parlare di abuso.

Lorenzo: mi viene in mente che a volte usiamo “bello” per un’esperienza che ci arricchisce perché non sappiamo definirla in modi migliori, e nessun altro termine ci sembra adeguato. Ad esempio, guardando un film di David Lynch.

(momento concitato)

É vero, ma c’è una spia interessante. A volte diciamo “bello” per dire che riconosciamo un’opera d’arte. Del film di David Lynch, riconosciamo che esso ha una rilevanza artistica e non è paragonabile ad altri film che pure mi sono piaciuti. Forse è un indizio, magari improprio, che però ci permette di riconoscere un’esperienza di valore artistico. Difficile, in effetti, dire che un film di David Lynch sia bello, oppure addirittura dirlo di un film di Lars von Trier!

Sandra: Proviamo a coniugare i concetti di “rappresentazione” e “immagine”.

Il tema della rappresentazione sta al centro dell’esperienza estetica e qui nasce la disciplina. Con “rappresentazione” possiamo intendere diverse cose: innanzitutto, è qualcosa che ci sta di fronte ed è generata dalla relazione soggetto-oggetto, e il soggetto tende a darsi un’immagine dell’oggetto delimitandolo. Un’immagine è sempre una forma di delimitazione: così come la rappresentazione, nella sua forma più classica, è la riconduzione del molteplice all’unità. Il movimento rappresentazionale è la capacità di racchiudere elementi molteplici e differenti entro una delimitata immagine. Rientra qui il ragionamento su cornice o inquadratura. La specificità dell’estetica è che quando facciamo un’esperienza di tipo estetico abbiamo sempre bisogno di un contatto diretto con l’oggetto, specie se intendiamo questa esperienza come connotata emotivamente. Non è la stessa cosa vedere un quadro e la sua rappresentazione fotografica o farvelo raccontare. Se io mi trovo effettivamente di fronte alla Gioconda, proverò una sensazione differente rispetto a sentire il racconto di un amico che l’ha vista. In tal senso, la rappresentazione è fondamentale. Quello che è interessante chiedersi è se esista un’esperienza estetica priva di immagini, che rinunci alle immagini. In questo caso, il sublime5 diventa un caso eccezionale perché ci permette di avere un’esperienza estetica senza la produzione di un’immagine. È però vero che il sublime parte dall’esperienza di un oggetto, perlomeno si assiste a una forma di esibizione. Alcuni provano a rinunciare alla rappresentazione in estetica citando le realtà di tipo immersivo, ragionando non tanto sull’aver di fronte un oggetto ma sul trovarsi immersi nell’esperienza. Le declinazioni più contemporanee dell’estetica cercano proprio di fare a meno della rappresentazione.

Lorenzo: Parliamo anche del concetto di simbolo.

A mio parere, il simbolo è un tema centrale dell’estetica. Il simbolo diviene un dispositivo essenziale nel momento in cui ci permette di spiegare in che modo investiamo un oggetto fisico di un significato ulteriore. Attraverso la relazione simbolica tra forma e contenuto possiamo avere un’esperienza estetica non assimilabile alla percezione. L’estetica diviene quindi un’esperienza in cui si investe un oggetto di significato simbolico, in cui il significato dell’oggetto non sta nell’oggetto stesso ma è rimandato altrove. Possiamo fare moltissimi esempi, a partire dall’arte contemporanea che rafforza la centralità del simbolo. Da Kant in poi, il simbolo diviene la specificità della produzione artistica, per cui l’opera d’arte è definita esattamente come quell’oggetto che è in grado di rimandare in modo indiretto a un significato ulteriore. Nella mia prospettiva il simbolo ha una centralità decisiva.

Lorenzo: se a volte è il fruitore, non tanto l’artista, ad attribuire un simbolo all’arte, o per lo meno c’è una compresenza fra questi due aspetti, vuol dire che il simbolo è uno strumento che permette al fruitore di porsi come artista egli stesso. Un discorso ancor più importante quando si parla del ruolo della critica.

Mi vengono in mente l’arte povera o le produzioni artistiche fatte dai malati psichiatrici. Spesso vengono esposte queste opere come vere opere d’arte, forse non a torto: il creatore probabilmente non è consapevole, pur avendo compiuto un atto espressivo e avendo portato fuori di sé un contenuto. Non è detto, però, che l’artista sia del tutto consapevole del contenuto espresso. È proprio nella relazione fra pubblico e artista che si genera l’opera d’arte, o per lo meno, l’attribuzione di significato simbolico.

Sandra: i significati attribuiti dai fruitori hanno un certo grado di rapporto con il significato originario conferito dall’artista?

Sapevo che saremmo finiti qui (ride), è un discorso complicatissimo. A mio parere non si può parlare di verità estetica, per lo meno non attribuendo significato logico al termine. Non è possibile parlare di correttezza, insomma. Per questo parlerei di riuscita: riuscita della relazione fra artista, opera d’arte e fruitore. Così come nelle relazioni personali, non si può parlare di vero o falso: si parla solo di relazioni che funzionano.

Sandra: ma quindi la riuscita è la creazione di una relazione? Forse il grado “più vicino possibile” all’originale. È possibile che il messaggio ricevuto dal pubblico possa essere diverso o non arrivare? Di conseguenza, quel che arriva al pubblico può essere più o meno vicino all’intenzione?

Sicuramente, posto che l’idea esibita nell’opera non è mai determinata, l’artista si espone all’indeterminato, c’è un grado di vicinanza o meno all’intenzione. Sicuramente, se l’artista vuole trasmettere un’idea e al pubblico arriva il contrario di quell’idea, è difficile che poi l’opera sia riuscita. Se c’è uno sfasamento completo mi viene da dire che un’opera d’arte non sia riuscita. Dopodiché, credo che nella storia dell’arte possiamo pensare a dei fraintendimenti, a delle opere fraintese ma comunque accolte benissimo dal pubblico. Questa è comunque un’opera d’arte riuscita.

Lorenzo: ha visto The Disaster Artist? In questo film, si parla della realizzazione assolutamente non prevista del film definito il più brutto della storia; il suo regista, Tommy Wisau, ancora si arricchisce e raccoglie gli onori per quest’opera.

Certo, se il pubblico si diverte e lo trova interessante e pieno di spunti, allora è riuscito. Ma un conto è la riuscita estetica, un altro è la riuscita economica.


Note:

  1. [1] La filosofia analitica è una corrente filosofica sorta nel XX secolo, tipicamente legata al mondo anglofono. Essa si serve di un metodo che privilegia la chiarezza argomentativa, l’utilizzo della logica formale e il rispetto per i risultati scientifici.
  2. [2] Campo della filosofia che indaga le condizioni della conoscenza scientifica, con attenzione rivolta alle sue strutture logiche e metodologiche.
  3. [3] Il pragmatismo è un movimento filosofico secondo il quale l’azione pratica in vista di un fine concreto è preminente rispetto all’attività teoretica.
  4. [4] Termine introdotto da Wittgenstein nelle Ricerche Logiche. Secondo Wittgenstein, la natura di un concetto risiede in una parentela dei fenomeni catturati da esso. Come fra i membri di una famiglia si rileva una continuità espressa da caratteristiche diverse, così in fenomeni pur diversi fra loro si riscontra una certa continuità che permette di ricondurli tutti a uno stesso concetto.
  5. [5] Fra le questioni estetiche più trattate nel XVIII secolo e nel Romanticismo, il sublime è un’esperienza emotiva in cui il fruitore prende coscienza del proprio limite razionale di fronte a un fenomeno che esibisce l’immensa potenza della natura.

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