AttualitàMondo

Se gli oceani muoiono, moriamo anche noi

Negli ultimi giorni, vicino alle coste della Tasmania, si è verificato uno spiaggiamento di massa di globicefali, cetacei più comunemente chiamati delfini pilota. Una volta avvicinatisi alla costa sono rimasti intrappolati nel basso fondale e nei banchi di sabbia senza riuscire più ad uscirne: quasi 500 animali arenati, oltre la metà dei quali già morti. La macchina dei soccorsi australiana si è subito attivata, permettendo il salvataggio di un’ottantina di esemplari e impegnandosi a continuare le operazioni fino all’ultimo animale sopravvissuto.
Molte sono le cause scatenanti ipotizzate dagli esperti, tra le più quotate l’avvicinamento dei delfini pilota alla costa per nutrirsi e la possibilità che a capo del branco vi fossero alcuni esemplari malati. Tuttavia, non è esclusa la possibilità che a spaventare gli animali siano state le imbarcazioni adibite alla trivellazione alla ricerca di pozzi petroliferi.

delfini-tasmania-cetacei
Un gruppo di delfini pilota (foto via CNN)

Pur trattandosi di eventi terribili, soprattutto se di queste proporzioni, gli spiaggiamenti non sono considerati una minaccia per nessuna specie di cetacei, più frequentemente messe invece in pericolo dall’uomo. Famosa è la caccia alla balena, pratica fiorente tra il 1800 e il 1900 in cui potevano essere uccisi oltre 40.000 esemplari all’anno. Era principalmente il loro grasso a renderli un bersaglio ambito, tuttavia anche la loro carne veniva e viene ancora consumata nei paesi nordici come l’Islanda, la Norvegia e le isole Fær Øer e in Giappone. Sono tra i pochi paesi a continuare questa pratica, ormai ritenuta illegale in gran parte del mondo grazie all’intervento dell’IWC (International Whale Commission, Commissione baleniera internazionale). A nulla stanno servendo le continue sanzioni che questi Stati ricevono per aver infranto le leggi dell’IWC: la Norvegia e il Giappone in particolare giustificano le continue violazioni dichiarando di cacciare le balene esclusivamente per scopi di ricerca scientifica.

La caccia alla balena non è vietata ovunque. Ad oggi, preservano il loro diritto a cacciare i cetacei alcune popolazioni indigene di Alaska, Groenlandia, Russia e Caraibi per motivi culturali. Anche gli abitanti delle isole Far Øer rivendicano però tale diritto senza aver mai ottenuto l’autorizzazione da parte dell’IWC: la pratica tradizionale faroese del “Grindadrap” consiste nella caccia a diverse specie di cetacei, circa mille ogni anno, che vengono prima individuati e successivamente spinti dalle imbarcazioni verso riva dove sono spiaggiati e uccisi. Il Grindadrap suscita continuamente aspre polemiche da parte dei gruppi preposti alla salvaguardia delle balene, sia per la sua illegalità e per le immagini strazianti che ne derivano (baie e insenature con l’acqua completamente insanguinata a causa delle arterie delle balene recise) sia per l’enorme quantità di grasso e carne che viene prodotta ogni anno in eccesso rispetto al reale fabbisogno della popolazione. Tuttavia, i faroesi non sembrano assolutamente disposti a rinunciare a questa caccia tradizionale, sia per motivi culturali sia (più probabilmente) perché le industrie di trasformazione della carne e del grasso delle balene sono una florida fonte di lavoro per la popolazione locale.

caccia-alla-balena-cetacei
Una foto dal progetto “Photo diary of a whale hunt” del fotografo Claudio Sieber. Il reportage documenta la tradizionale caccia alla balena degli abitanti di Lamalera, in Indonesia.

Altri fattori di rischio per i cetacei sono l’inquinamento del mare, a causa del quale le balene si ritrovano con lo stomaco pieno di plastica, e l’allargamento del buco dell’ozono sopra l’Antartide, che permettendo il passaggio dei raggi UV causa gravi patologie in questi animali. Pericoloso è anche il perseverare della pesca con alcuni tipi di rete come la spadara, già dichiarata illegale per l’alto tasso di animali protetti che morivano rimanendovi impigliati. Dispiegata in mare, la spadara si estende dal filo dell’acqua scendendo poi in profondità e formando un vero e proprio muro che non seleziona quali specie pescare, catturando sia i pesci spada, vero obiettivo della pesca, sia tartarughe, delfini e persino capodogli.

A battersi per questi importanti animali sono moltissime organizzazioni in giro per il mondo: una delle più famose è Sea Shepherd. Fondata dal capitano Paul Watson a Vancouver nel 1977, Sea Shepherd è un’organizzazione internazionale senza fini di lucro la cui missione è quella di “fermare la distruzione dell’habitat naturale e il massacro delle specie selvatiche negli oceani del mondo intero, al fine di conservare e proteggere l’ecosistema e le differenti specie”. Dal 2005 si batte in mare aperto contro la flotta di baleniere giapponesi, e fino adesso ha salvato oltre 6000 esemplari. Dopo l’approdo a La Spezia della nave ammiraglia MV Steve Irwin è nato ufficialmente, nel Luglio del 2010, il gruppo di Sea Sheperd in Italia.

sea-sheperd-nave
Una nave della Sea Sheperd (foto via CNN)

L’attività principale della Sea Shepherd è stata a lungo quella di inseguire le navi impegnate nella caccia per spaventare i gruppi di cetacei nelle vicinanze, salvandoli così dagli arpioni. Questo è avvenuto finchè la flotta nipponica non ha iniziato ad utilizzare tecnologie militari per tracciare le navi della ONLUS, riuscendo così a seminarle o evitarle completamente. Grazie a Sea Shepherd e all’Australia, però, le attività giapponesi nell’Antartico sono state dichiarate illegali dalla Corte Internazionale di Giustizia, che ha ordinato la loro cessazione. Il capitano e fondatore Paul Watson ha dichiarato in un’intervista che “se le balene riusciranno a sopravvivere e a prosperare, se le foche continueranno a vivere e a riprodursi, e se io potrò contribuire ad assicurare la loro futura prosperità, allora potrò essere eternamente felice”.
Sea Sheperd continua a battere i mari per la salvaguardia dei cetacei e ad occuparsi della sensibilizzazione delle persone di fronte al problema anche con gesti relativamente piccoli: due anni fa ad esempio, ad Amsterdam, è stato aperto lo studio di Tattoo di Sea Shepherd in collaborazione con il tatuatore ed attivista Geert Vons (hanno anche presentato una linea di inchiostri vegan per tatuaggi con il proprio marchio). Tutti i proventi vanno a Sea Sheperd.
Il motto della Sea Shepherd? Se gli Oceani muoiono, moriamo anche noi.

(La foto in copertina è di Guille Pozzi)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *