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Cecilia Strada: una vita con Emergency

Il gruppo Emergency di Pavia ha organizzato in questi giorni (dall’8 all’11 maggio) un festival universitario, ancora alla prima edizione, dedicato al tema della guerra, trattato nelle sue varie sfaccettature, e all’auspicabile soluzione al problema attraverso la pace e la garanzia dei diritti. Ad aprire il ciclo di conferenze, il presidente dell’ONG Emergency, Cecilia Strada la cui storia è legata a quella dell’organizzazione in modo inscindibile. È stato infatti suo padre, Gino Strada, a fondare il primo embrione dell’organizzazione che si è poi ampliata diventando una realtà presente in tanti paesi del mondo, Italia compresa, con ospedali, centri, attrezzature all’avanguardia e gratuiti. Abbiamo avuto il piacere di intervistarla e lasciarci coinvolgere dal suo entusiasmo, forte nonostante le atrocità con cui entra in contatto tutti i giorni, e voglia di fare, fondamentale se si vuole davvero realizzare qualcosa di concreto per cambiare, anche di poco, il mondo. Ecco cosa ci ha raccontato.

 

Se dovessi descrivere cos’è Emergency per te a qualcuno, ad esempio uno studente, che non la conosce, cosa diresti?

Emergency è un’organizzazione che fa una cosa piuttosto semplice, cioè curare chi ha bisogno, bene e gratis. Si tratta dell’idea più semplice del mondo, forse addirittura banale…è realizzarla che è piuttosto complicato, invece. Tante volte lavoriamo in zone di guerra, distrutte e dove c’è grande povertà perciò può essere complicato, però l’idea di base è davvero molto semplice.

Da dove nasce l’idea di realizzare un festival (questa è la prima edizione), dedicato agli universitari per parlare del tema della guerra?

Gli universitari di oggi sono coloro che nei prossimi anni decideranno se il mondo dovrà continuare ad andare come sta andando o se invece lo si potrà far andare un po’ meglio. Io ho 40 anni e, francamente, non ho molte speranza, né in quello che posso fare io né in quello che possono fare i miei coetanei. Sono quelli che oggi vanno all’Università che sceglieranno se garantire diritti o costruire muri, se fare un’altra guerra o cominciare a fare un po’ di pace. È un investimento, forse egoista, quello negli studenti, ma voi siete il futuro.

L’organizzazione conta molti membri giovani?

Abbiamo un gruppo universitario qui a Pavia che conta molti componenti, ma siamo sempre alla ricerca di nuovi volontari.

Come è possibile diventarlo? Cosa può fare un giovane volontario?

Basta contattare il gruppo universitario di Pavia di Emergency e loro vi spiegheranno in quali modi è possibile aiutarci. Ad esempio investendo anche solo un po’ di tempo e fantasia per inventarsi dal festival che parla di cose molto serie, alla festa della birra dove ci si diverte e nel frattempo si parla, si fa conoscere Emergency e magari si riescono anche a raccogliere dei fondi per gestire le attività.

La tua esperienza. Perché Emergency?

Non ho avuto molta scelta in realtà. Avevo tredici anni quando mio padre ha detto a me e a mia madre «Fondiamo una nostra organizzazione umanitaria!». All’inizio abbiamo pensato che fosse “impazzito”, ma dal giorno dopo ci siamo messi a ragionare seriamente sul progetto, e il progetto era davvero bello quindi sono andata avanti. Ho fatto la volontaria per tanti anni, poi ho cominciato a lavorare sui vari progetti e poi quando è venuta a mancare la nostra prima presidente, sono stata nominata io.

Hai vissuto tante esperienze diverse in tanti paesi del mondo dove la popolazione civile vive in condizioni disastrose a causa della guerra e della povertà e, dove voi operate. Ce n’è una che ti è rimasta particolarmente impressa?

È difficile trovarne una in particolare. Quando si trascorre così tanto tempo in zone di guerra, ogni giorno è un’esperienza che ti tocca. Ogni giorno ti trovi davanti al disastro causato dall’uomo e non te la puoi neanche prendere con il monsone, il destino, il caso. Quando ti trovi davanti bambini che hanno subito una tripla amputazione, lì la colpa è solo dell’uomo e questo è un genere di esperienza estremamente forte.

Senza andare troppo lontano in un contesto di guerra, però, un mese fa ero in provincia di Reggio Calabria dove abbiamo un poliambulatorio. Sono stata alla tendopoli di Rosarno da cui arrivano tanti nostri pazienti e ci sono persone che oggi, in Italia, vivono come schiavi del caporalato, sfruttati, senz’acqua, senza riscaldamenti, in mezzo alla spazzatura. E questo fa abbastanza impressione. Soprattutto è assurda l’idea che i poveri se la prendano con altri poveri, anziché rendersi conto che il problema non sono altri sfruttati, ma gli sfruttatori. Il problema che ha il raccoglitore d’arance italiano lo ha anche quello straniero e questo problema non si chiama Mohamed, ma criminalità organizzata.

Si parla tanto di conflitti dimenticati. In alcune zone del mondo ci sono guerre che sembrano non interessare a nessuno, di cui anche i media si dimenticano. Voi quando agite, considerate alcune guerre prioritarie rispetto ad altre o pur sempre di guerra si tratta?

Noi ci rechiamo laddove ci è possibile e dove sappiamo di poter fare la differenza anche se si tratta di conflitti di cui non si parla più. Siamo in Afghanistan dal ’99 e oggi qui in Italia su giornali e in televisione non se ne sente più parlare, anche se al nostro Stato dovrebbe interessare, eccome. Eppure noi anno dopo anno ricoveriamo sempre più vittime civili perché, anno dopo anno, ci sono comunque più morti e feriti. Alcune guerre sono sempre dimenticate, altre vanno a correnti alternate.

Avete progetti e idee per il futuro?

Stiamo costruendo un ospedale pediatrico in Uganda che farà chirurgia pediatrica come centro regionale portando, cioè, bambini a farsi operare da altri paesi africani.

Stiamo ampliando anche “Programma Italia”, perché riceviamo tante richieste di aprire altri ambulatori, oltre a quelli già presenti, anche nel nostro paese. Nel frattempo continuiamo a cercare di fare fronte all’aumento di feriti sia in Iraq che in Afghanistan.

Un messaggio che senti di esprimere con il cuore ai giovani

Ragazzi, con quelli che hanno la mia età la battaglia è ormai persa, conto su di voi per vedere di raddrizzare un po’ tutte le storture di ‘sto mondo. Fintanto che si avviterà in una spirale di povertà e violenza nessuno potrà stare bene. Aiutare gli altri vuol dire aiutare noi stessi e poi… fa sentire bene. Provare per credere. Non è un sacrificio; lo sembra, all’inizio, e richiede della fatica, ma alla fine si è sempre più ricchi di quando si è cominciato. E non parlo di ricchezza in denaro.

Claudia Agrestino

Sono iscritta a Studi dell'Africa e dell'Asia all'Università di Pavia. Amo viaggiare e scrivere di Africa, Medioriente, musica. Il mio mantra: "Dove finiscono le storie che nessuno racconta?"

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