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Blues e Buddha ─ Uno sguardo alla poesia di Jack Kerouac

Got up and dressed up

      and went out & got laid

Then died and got buried

      in a coffin in the grave,

Man—

      Yet everything is perfect,

Because it is empty,

Because it is perfect

      with emptiness,

Because it’s not even happening.

[…]

113° Chorus, Mexico City Blues

A Jack Kerouac non sarebbe mai importato distinguere tra il significato di vivere una vita piena e una vita vuota. È possibile oggi avvicinare a noi Jack Kerouac, nato quasi 100 anni fa?

Mexico City Blues è una raccolta poetica, pubblicata nel 1959 (oggi reperibile nell’edizione italiana di Newton Compton Editori). Una particolarità del libro, che emerge già dal titolo, è l’immediato richiamo alla musica. Kerouac apre la propria opera descrivendosi come “un poeta jazz che suona un lungo blues durante una jam session una domenica pomeriggio.” E, come qualsiasi musicista dalla formazione jazz (Kerouac è soprattutto un appassionato di Bebop), la sua forza creativa risiede nel proprio flusso di coscienza, ossia nella capacità di seguire un ritmo che è totalmente individuale: « …i miei pensieri variano e a volta passano da un chorus all’altro o da metà di un chorus a metà di quello dopo». I cosiddetti chorus sono le strofe, o meglio i ritornelli che intona al ritmo di musica jazz o blues. La sovrapponibilità di un chorus sull’altro significa che i versi posti tra essi sono da intendere come un assolo di jazz che segue diversi ritmi, senza un’idea precisa della direzione che prenderà. Una serie di variazioni sul tema, insomma, di assoli di sax che si sa da dove partono ma non dove vaghino e vadano a finire, in quello che suona, oltre alla bella metafora, come una consapevole dichiarazione di poetica.

Jack Kerouac
Jack Kerouac; foto di Elliott Erwitt, Magnum Photos

La poesia intitolata 113° chorus sembra indicarci che anche il modo di condurre la propria vita sembra seguire un andamento simile, senza una meta precisa: «Si è alzato e messo in ghingheri / ed è uscito & ha scopato / Poi è morto e l’han sepolto / in una bara nella tomba» (traduzione di Leopoldo Carra per I Blues di Kerouac, Mondadori 2019). La brevità di questi primi versi, crudi e diretti, comunica un senso di vuoto. Tutto, tranne un semplice atto sessuale, è vuoto. La vita sembra priva di colpi di scena, di eventi memorabili, soprattutto la sua, devastata da alcool e abuso di droghe. Ma qui l’autore ci introduce un concetto originale: Jack Kerouac sembra insistere sul fatto che se tutto è vuoto, allora così deve essere, perché non c’è nulla che accada per davvero («Perché è perfetto di vuotezza, / Perché non sta succedendo davvero» v9-10).

Kerouac ha un approccio verso la vita, nella sua poesia, che non si rispecchia nelle visioni dell’Occidente. Se nello stile prende ispirazione da scrittori quali James Joyce (basti pensare al concetto stesso di flusso di coscienza), egli comincia a coltivare un interesse per la filosofia buddista, particolarmente la corrente mahayana. Una delle sue letture più appassionate durante gli anni di formazione è il Sutra del Diamante, un’antichissima raccolta di insegnamenti della filosofia buddista, che Kerouac decide di studiare per conto proprio, dal 1955. Le spie di questa cultura esotica, tanto per lui quanto per i suoi lettori connazionali, si trovano nei versi successivi («la dottrina /imperscrutabile del diamante»). Per comprendere l’io poetico occorre arrivare a un annullamento della corporeità, inclusi i desideri per le cose terrene. Senza questa consapevolezza, il raggiungimento del nirvana sarebbe impossibile.
Kerouac è tra i primi scrittori degli Stati Unita a trovare nelle dottrine del buddismo una visione poetica più che una fede alternativa a quella cristiana. Lo si può osservare nel secondo componimento della raccolta:

[…]      

L’uomo nel Mezzo

Non è Preoccupato

Sa che il suo Karma

Non è sepolto

Ma il suo Karma,

A sua insaputa,

Può finire –

È questo il Nirvana

[…]

2° chorus, Mexico City Blues (traduzione di Leopoldo Carra)

Jack Kerouac
Immagine da “University of California, San Diego.

Considerato il maggior esponente del movimento contro-culturale degli anni ’50 e ‘60 noto come Beat Generation, Kerouac fornisce all’occidente delle immagini del tutto originali. Se la sua opera più nota On the Road (1957, Sulla Strada) ha fatto sognare la ribellione e l’anticonformismo a generazioni intere, è nelle poesie meno diffuse in cui Kerouac ritrae l’Uomo nel proprio lato più intimo, in discussione con sé stesso, si potrebbe dire esistenziale. Un apparente cambio di paradigma dunque rispetto alle avventure di On the Road, apparentemente, che però unisce prosa e poesia sulla base del ritmo: in Statements on Poetics Kerouac spiega: «Il ritmo con cui corri a declamare determina il ritmo della tua poesia, che sia una poesia divisa in versi o una lunga poesia lineare chiamata prosa…»

Non ci dovrebbe sorprendere che Jack Kerouac abbia cercato di esprimere uno stile di vita che agli occhi di tanti oggi potrebbe apparire come semplice sregolatezza, eppure la questione, a un lettore più attento, si dimostra subito ben più complessa.

Non c’è mestiere che Kerouac non abbia esercitato: guardia forestale, frenatore ferroviario, marinaio, coltivatore. Ma soprattutto viaggiatore e vagabondo, rivoluzionario opposto alle convenzioni e al mito della società americana, finché il suo fegato non lo lasciò, divorato dalla cirrosi epatica che ne causò la morte a soli 47 anni, nel 1969. “Il suo interesse nei confronti di tutti era così assolutamente illimitato come l’impulso irrefrenabile di un ubriaco di correre e ricominciare da zero, sfiancare il mondo, baciare le fondamenta del mondo” Questa frase, da Maggie Cassidy (1959), può condensare e insieme riprendere, spiegare forse, la celebre riga che Kerouac scrive in On the Road: «Le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza».

Mexico city blues, copertina

Rimane da rispondere a un paio di domande: Se la vita, per l’autore, richiama il vuoto, allora perché vivere con tanta foga? E come mai negli ultimi versi del 113° Chorus, Kerouac sembra alludere al fatto che la vita non sia una rincorsa verso l’illuminazione piena di “bruciante significato”, ma più probabilmente è un passo lento verso il nulla? Perché, forse, per il Kerouac-poeta non sono le parole a costituire il messaggio della sua scrittura, ma la capacità di mostrare dal proprio punto di vista l’esperienza pura della condizione umana, una condizione che non è contaminata dal desiderio di fare conquiste, di riempirsi di colpi di scena, ma piuttosto dall’esistere, semplicemente, iniziare la vita come un assolo di jazz e vedere dove si va.

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