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Avengers: Infinity War. Essere e avere

Correva l’anno 1979 e Jean-Francois Lyotard sanciva con il suo saggio La condition postmoderne la nascita di un’epoca senza le “grands récits”, le grandi narrazioni. Niente più Illuminismo, niente più Romanticismo, niente più “ismi” (salvo forse solo a questo punto il postmodernismo), la contemporaneità sfugge a queste grandi sintesi socio-filosofiche per cedere il passo a un “disincantamento” scientifico e industriale che pone l’emancipazione dell’individuo al centro, purché chiaramente possa permetterselo. In questo senso si dicono superate le grandi ideologie e tutti gli uomini si scoprono capaci di entrare a far parte di una classe dirigente sempre più diversificata e stratificata accomunata solo dal possesso della ricchezza. Non perché nel postmoderno l’avere sia più importante dell’essere (che da sempre, per tutte le classi dirigenti è stato così) ma piuttosto perché l’avere diventa importante quanto l’essere. Chiamatela presa di coscienza, chiamatelo superamento, chiamatelo come vi pare, quello che è certo è che il post-moderno, vi piaccia o meno, non è la migliore chiave di lettura della contemporaneità bensì l’unica possibile.

Avengers-Infinity-War-trailer-Thanos-armor-header-1L’unica costante che avvicina il post-modernismo ai secoli precedenti è l’importanza dell’arte, la quale anche nella contemporaneità, rimane lo strumento principe per raccontare un’epoca. Avengers: Infinity War è senza dubbio un’opera d’arte di questa seconda fase del post-modernismo, una summa compiuta e armonica di un’epoca in cui lo scontro tra individuo e mondo, tra volontà e realtà, tra soggetto e spirito, raggiunge il suo culmine estetico. Non esagero se affermo che l’ultima fatica dei fratelli Russo è l’equivalente dell’“Impero colpisce ancora” di questa generazione per impatto emotivo, realizzazione tecnica ma soprattutto per l’importanza che questo film ha assunto finora e sicuramente assumerà in seguito. Infinity War è un film corale, stracolmo di contenuti e, proprio ai fini di una analisi il più esaustiva possibile, scegliamo di raggrupparli in sei grandi categorie:

Spazio: gestito benissimo sia a livello narrativo, senza che nessun personaggio prevarichi sull’altro ma concedendo ad ognuno la propria parabola di vicende e scelte, sia a livello scenico, con l’ausilio di una computer grafica al meglio delle proprie possibilità. Certamente questa varietà talvolta si traduce in qualche sbavatura di regia, ma niente di così evidente da rovinare anche solo minimamente una delle più grandi esperienze visive cinematografiche di tutti i tempi.

Potere: inteso come sfruttamento delle potenzialità. I registi ma soprattutto gli sceneggiatori Christopher Markus e Stephen McFeely non si sono limitati a mostrare i muscoli di una storia potente ma li hanno usati per muovere gli enormi ingranaggi di una macrostoria avviata ormai da dieci anni. Ogni personaggio si realizza pienamente solo quando si relaziona con un altro e la vera forza del film non consiste nel potere combinato dei suoi eroi ma dalla condivisione delle proprie debolezze. In questo modo lo scontro tra protagonisti e antagonisti supera la classica distinzione bene e male non scendendo nella trappola della empatia relativista (“quello che è bene per me è male per un altro”) ma presentando direttamente un’altra impostazione: l’estremo egoismo contro l’estremo altruismo. Lascio alla sorpresa della sala la scoperta delle rispettive appartenenze.

Realtà: intesa come percezione di coerenza a più livelli. Abbiamo già detto che nella storia ogni tassello va al posto giusto. In tutto questo la scrittura svolge un ruolo preponderante andando sapientemente a miscelare le macro-realtà narrative (lo scontro con Thanos) con le micro-realtà dei protagonisti. In questo senso il rapporto tra Wanda (Elizabeth Olsen) e Visione (un insostituibile Paul Bettany), per fare un esempio, raggiunge in questo capitolo il massimo dell’intensità possibile. Ed è grazie a queste digressioni, se di digressioni vogliamo parlare, che ci si rende subito conto come, a dispetto dei vari screen-time, non esistano in questo film personaggi secondari.

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Mente: perché è vero che non mancano scazzottate ed esplosioni ma è altresì vero che Infinity War è prima di tutto un film pensato, ragionato, studiato nei minimi dettagli. Merito anche di scelte di montaggio che riescono nel difficile compito di rendere coesa una storia con almeno tre trame principali e altre non meno importanti sotto-trame. Jodie Foster ha di recente definito i cinecomic un cinema da Luna Park. Ammesso che sia vero, servono fior di progettisti e diversi anni per elaborare qualcosa che possa dare a una persona due ore di sano divertimento e svago. Un lavoro questo che, al di là dei gusti personali, non liquiderei con tanta fretta. Infinity War poteva essere realizzato probabilmente in quattordici milioni di modi differenti; ma solo così poteva essere un buon film.

Tempo: possibile che un film di due ore e trentanove minuti possa scorrere via senza pesare minimamente? Possibile e ancora una volta è merito delle scelte di regia e montaggio: i personaggi non occupano solo spazio ma tempo e questo tempo è irrecuperabile. Mai come in Infinity War i Marvel Studios hanno dato prova di saper valorizzare non solo ogni minuto del film ma ogni ora soprattutto dei film precedenti. Una storia iniziata dieci anni fa e che solo adesso accenna in parte a concludersi. Se andate al cinema pensando che non sia importante aver visto i 18 film precedenti della saga, sappiate che è una perdita di tempo.

Anima: in tutto questo l’anima del film risulta chiara già dalla fine del primo tempo. Infinity War è una “grande narrazione”, probabilmente non socio-filosofica ma sicuramente splendidamente post-moderna. Un’opera d’arte riuscita nella quale i protagonisti non incarnano un ideale superiore per il quale morire ma, molto onestamente, una volontà ferrea e individuale che li spinge a vivere. A ciò si contrappone l’inesorabilità della fine, la grandezza dell’annullamento, l’inevitabilità di una chiusura che pone fine se non a tutto almeno a una prima buona metà delle vicende.

post_master-3-960x540Infine, Thanos il vero protagonista del film è un immenso Josh Brolin il quale, a dispetto di quanta CGI si sia adoperata per realizzarlo (veramente tanta), ci regala una perfomance attoriale tra le più imponenti che si siano mai viste. Una prova di profondità e spessore che non ha precedenti in nessun altro film dei Marvel Studios, nemmeno in Black Panther. Volendo parafrasare Hegel potremmo affermare che Thanos sia “lo spirito del mondo con un guanto”. E proprio come un personaggio perfettamente post-moderno, Thanos non si limita ad essere (in questo caso un antagonista perfetto) ma anche ad avere, a possedere, a tenere letteralmente in mano gli strumenti della sua opera. A dire il vero quello del possesso è un tòpos ricorrente in tutto il film: quasi ogni personaggio viene definito dal rapporto con il proprio strumento sia esso ottenuto grazie all’ingegno, alla condivisione o al sacrificio. In questo senso Avengers: Infinity War è il più grande film “commerciale” (dove qui l’aggettivo non ha alcuna valenza denigratoria) sulla contrapposizione tra essere e avere e la relativa ricerca dell’equilibrio mai realizzato.

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