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“Assassinio sull’Orient Express” è colpevole (di piacere)

Il mese scorso ho assistito a un incontro tra Andrea Vitali e i suoi lettori. Mi colpì particolarmente l’intervento di uno tra il pubblico: “La ringrazio, signor Vitali, per non scrivere dei gialli, non perché il genere non mi piaccia ma perché di questi tempi ce ne sono troppi.” Ed è vero, tra libri, cinema e serie TV il mondo è ormai pieno di investigatori, poliziotti e commissari al punto da faticare a distinguerli. Come fare allora per ridare linfa a un genere che conta troppi rappresentanti e troppe rappresentazioni? La risposta secondo la 20th Century Fox è ricominciare dai classici e dalle basi che hanno definito un genere. E per farlo non hanno badato a spese, a cominciare dal regista e qui anche attore protagonista: Kenneth Branagh è probabilmente l’unico attore shakespeariano in grado di interpretare un belga che passa per francese in una super-produzione americana da lui diretta. Ne risulta un film gradevole e dalla regia appassionata con giusto qualche ingenuità a livello di sceneggiatura senza però che si tradisca mai lo spirito della prolifica scrittrice britannica.

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Non serve dilungarsi molto sulla trama, che ormai è nota e arcinota anche per chi ha visto soltanto gli sceneggiati televisivi. Vi basti sapere che la fedeltà al romanzo a grandi linee c’è così come c’è un gusto, tipicamente americano, per l’iconografia, al punto da rasentare il macchiettistico. Il confronto con David Suchet è d’obbligo, dato che parliamo del Poirot televisivo più longevo (dal 1989 al 2013). Indubbiamente Kenneth Branagh fa leva sugli aspetti più peculiari del personaggio, accentuandone anche alcune sfaccettature (la cottura delle uova, il gusto per la simmetria, la cura dei baffi) al fine di catturare la simpatia dello spettatore più casuale. Questo a costo di alcuni virtuosismi intellettuali che dal romanzo (e dagli sceneggiati televisivi) sono andati inevitabilmente perduti. Eppure quella di Branagh non è una cattiva interpretazione anzi si fa apprezzare nella sua talvolta esagerata caratterizzazione del personaggio, pur non riuscendo mai ad eguagliare quella placida calma autorevole che contraddistingueva il Poirot di Suchet. Il grande merito di Branagh è semmai nella regia, di altissimo livello e allo stesso tempo devota della tradizione e audace. Devoto quando si tratta di dare spazio alla descrizione dei sospettati grazie a delle riprese ben angolate che mettono in risalto la fisionomia, il trucco e l’espressività di attrici come Daisy Ridley (convincente ma mai brillante), Judi Dench (semplicemente perfetta), Penélope Cruz (brillante ma con poco spazio) e più di tutte una Michelle Pfeiffer alla massima potenza, grandiosa nella sua interpretazione di una donna scissa su più livelli di recitazione. Audace invece nella scelta di non far vedere alcuni dettagli – almeno non subito – che di solito in un thriller sono il punto centrale della narrazione: ad esempio non si può che ammirare la scelta del Branagh regista di riprendere dall’alto la scena della scoperta del cadavere o le transizioni da una cabina all’altra quasi a voler istruire lo spettatore su quale punto di vista sia quello da preferire nella ricerca della verità. Certamente in questo film a uscirne vincitore è il cast femminile che grazie alle doti di “indagatore dell’animo umano” del protagonista è indubbiamente privilegiato nelle parti più introspettive.

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Il cast maschile invece è relegato ai quei ruoli più macchiettistici cui accennavo prima. Da Johnny Depp a Willem Dafoe, passando per Josh Gad, nessun interprete brilla mai veramente per originalità e molto del loro tempo su schermo è più che altro funzionale agli snodi della trama. E proprio l’impianto narrativo pecca leggermente andando a sfruttare quei tipici escamotage da film d’azione in alcuni casi veramente incomprensibili. Non solo, la scelta di affidare la crescita del personaggio di Poirot a una “ringkomposition” di dubbia efficacia (“la crepa nell’animo umano”) tradisce presto la natura fin troppo americana della produzione. Per fortuna ci salva una fotografia eccellente di Haris Zambarloukos (che già aveva lavorato con Branagh su Thor e Cenerentola) che assieme alle luci e al sapiente montaggio di Mick Audsley ci restituisce un’atmosfera gustosa a metà tra il thriller e la commedia brillante.

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Assassinio sull’Orient Express è un buon adattamento dell’opera di Agatha Christie e riesce bene a ritagliarsi un proprio spazio nell’epoca in cui il thriller sembra aver dimenticato le proprie origini.  Il film riesce nel suo doppio intento di rendere omaggio alla grande autrice e di appassionare le nuove generazioni. Non si sta parlando di un film perfetto ma certamente ben riuscito ed equilibrato, anche se in alcuni punti si fa piacere colpevolmente un po’ troppo. Ma questo è qualcosa di cui noi come spettatori, per primi, siamo tutti colpevoli.

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