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Arianna: un labirinto senza filo

Arianna è una favola italiana. Non una di quelle che finiscono con la riqualificazione altoborghese di un’operaia di provincia e nemmeno una di quelle piene di tradimenti tragicomici e infinite gambe di donna.

Arianna è una favola anomala, vissuta un po’ nella campagna lacustre che circonda Roma e un po’ nelle maglie asfissianti di un’adolescenza che sta finendo senza rispondere a troppi interrogativi.

Arianna, in definitiva, è una ragazza di vent’anni che non riesce a far parlare il proprio corpo. Che lo tocchi, che lo indaghi, che lo curi, che lo sottoponga a una sessualità più imposta che desiderata: quel corpo così distante dalle belle forme di donna della cugina non risponde, tace o meglio si ribella, geme e si fa estraneo, monco.

È il 2015 quando Carlo Lavagna esordisce a Venezia con Arianna, prodotto da Rai cinema con il sostegno di Mibac. Delicato, spettacolare nella tecnica –quasi impensabile che sia un’opera prima- adatta con garbo la narrativa di formazione a un’indagine tutta interiore che dagli interrogativi di un giovane corpo porta fino ai corridoi di un ospedale e alla rivelazione di un passato ossessivamente sepolto. A seguire: il consapevole avviarsi verso l’accettazione.

Come dicevo: una favola. Più amara, incredibilmente disposta ad affrontare una tematica come la sessualità non binaria, ma pur sempre una favola.

Esplicito: quando Arianna nasce, i medici hanno già diagnosticato la sua intersessualità.arianna-2015-Carlo-Lavagna-001

In termini più comprensibili: Arianna nasce ermafrodita e come spesso accade ai genitori viene consigliato fin da subito di rimuovere i genitali maschili con un’operazione chirurgica. Loro non solo lo fanno ma nascondono la verità alla figlia che arriva a vent’anni confusa da quel corpo mascolino e non sviluppato, ripetutamente indirizzata verso le cure di un ginecologo amico di famiglia che le somministra gli ormoni femminili con la scusa del ritardo del mestruo.

Esplicito, dicevo, e lo faccio prendendomi la responsabilità di rivelare apertamente il finale del film: perché tutto questo Arianna lo scopre da sola, seguendo con timore un filo che non si sa bene come abbia fatto ad ignorare per vent’anni. La parola intersessuale viene pronunciata una volta, a dieci minuti dalla fine del film. Arianna scopre. Arianna capisce. Arianna non si indigna perché i medici hanno caldamente consigliato la sua castrazione a tre anni, senza lasciarle possibilità di scelta e negandole una vita sessuale. Arianna non si indigna se la scelta è giustificata da un “Sarà più facile per lei credere di essere solo femmina. Pensate a quello che potrebbe dire la gente.”. Arianna è tormentata per tutta un’adolescenza e poi quando capisce che i genitori le hanno mentito per vent’anni e che avrebbero continuato a farlo se lei non fosse andata a scavare nell’archivio di un ospedale di provincia si abbandona a una serafica se stessa finalmente ritrovata.

“La verità è che non esiste una soluzione. Io sono uno più uno che però è uguale a tre. Quindi o accetto di essere un errore o devo trovare una matematica mia. Adesso sto lavorando per esclusione: so di non essere mia cugina, so di non essere il suo fidanzato e spero che fra un po’ di tempo il campo si restringerà così tanto che arriverò a capire chi sono io”.

Finale con corpo nudo quasi impercettibile, avvolto nell’acqua e nella foschia. Sorriso e occhi azzurri. Violini di sottofondo. Arianna si conclude con una rivincita così piena di speranza che sembra piegarsi inesorabilmente verso il buonismo.

Che non vuol dire che in un monologo di circa due minuti appena prima della chiusura non venga accennato un “certo li ho odiati, ma quando ti dicono che volevano solo il tuo bene, che fai? Dicevano che tutti mi avrebbero preso in giro, ma a me sembra una vergogna più loro che mia.”. Che non vuol dire nemmeno che l’avvicinarsi a questi argomenti implichi necessariamente una tensione aggressiva, rancorosa e drammatica.

Ma Arianna sembra mostrare – seppure, ribadisco, in forma lodevole – solo i risvolti che non rischiano di offendere nessuno. La vergogna sessuale dei genitori, quel pesantissimo “cosa diranno gli altri?” che giustifica una castrazione a tre anni e i sedici anni successivi di menzogne sono passati sotto silenzio, diventano un dettaglio tutto sommato comprensibile che si inserisce marginalmente in un più ampio percorso di crescita e accettazione di sé.

Una favola italiana, dicevo, un gioiellino che dell’intersessualità dice poco – sull’argomento si veda piuttosto la narrazione grezza e fortissima di XXY che otto anni prima affrontava la stessa problematica con spirito decisamente diverso – ma dell’Italia dice moltissimo.

Perché in un 2015 globalmente connesso Arianna non è spinta a farsi domande, a esigere risposte credibili davanti all’evidenza del suo corpo? Perché nel 2015 l’assistenza medica di routine prevede la castrazione di un individuo in modo da vederlo rientrare nel canone binario socialmente accettato? Ci sono domande che non hanno bisogno di risposte sorridenti e piene di bonaria speranza, nemmeno se la fotografia è magistrale e le musiche sono tutte al loro posto, tanto da sfiorare il David di Donatello e il Nastro d’Argento. Ci sono domande che forse non hanno proprio bisogno di una risposta – almeno non nei novanta minuti di un film – ma credo che anche in Italia, anche a Roma, soprattutto nel XXI secolo, perlomeno un po’ di rispettosa indignazione se la meriterebbero.

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