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Anteprima • Una tragedia in sette atti: “Sulla mia pelle”

È il 15 ottobre 2009, notte inoltrata, Roma.  Il 31enne Stefano Cucchi viene fermato per presunto spaccio di sostanze stupefacenti. Perquisito, viene trovato in possesso di 21 grammi di hashish e due dosi di cocaina. Stefano, che ha precedenti per dipendenza da eroina, trascorre la notte in caserma e viene processato in direttissima il giorno seguente. Per lui viene stabilita la custodia cautelare fino al processo fissato per il mese successivo. Processo che Stefano non vedrà mai, perché morirà sette giorni dopo nelle celle dell’ospedale Sandro Pertini. Morirà massacrato di botte, con gli occhi pesti e fratture alla mascella e alla spina dorsale. Morirà pesando appena trentasette chili, denutrito e disidratato, attaccato a un catetere a causa di un’emorragia interna alla vescica. Morirà all’interno di uno dei casi di cronaca nera italiana più controversi e vergognosi degli ultimi anni.

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Questi i fatti, rimbalzati da un mass media all’altro, oggetto di discussioni e denunce che hanno portato all’arresto dei carabinieri responsabili delle percosse e dei medici curanti accusati di omicidio colposo. Nove anni dopo Alessandro Cremonini, affiancato nella sceneggiatura da Lisa Nur Sultan, scrive e dirige Sulla mia pelle, film Netflix prodotto da Lucky Red, presentato a Venezia e interamente dedicato all’ultima e tragica settimana di Stefano Cucchi. Un film sensibile e crudo, che sa muoversi su livelli diversi senza perdere una straordinaria lucidità.

La voce e il volto di Alessandro Borghi, che dopo la discesa negli inferi romaneschi di Non essere cattivo  sembra muoversi a casa propria, fanno di Cucchi un uomo di carne, vittima a cui non è scontata nessuna delle sue colpe. Le scelte di vita, la droga, la fiducia dei genitori tradita per l’ennesima, tragica volta: nulla è condonato, anzi. Cremonini tratta con dolorosa sensibilità l’intrecciarsi di rapporti che delineano la vicenda di Stefano. Jasmine Trinca (la sorella Ilaria) e i genitori Max Tortora e Milvia Marigliano sono interpreti d’eccellenza per una relazione che non si risolve mai con facilità. Dopotutto, a conti fatti, chi vorrebbe un figlio come Stefano Cucchi? E insieme: posti davanti alla cruda realtà della ferocia di cui è stato vittima, chi non lo sente figlio della propria umanità?

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Senza retorica pietistica, Sulla mia pelle  procede seguendo la scansione ineluttabile dei giorni, che si sviluppano nelle tinte giallastre delle carceri e delle caserme.  La fotografia, densa di primi piani, accorcia le distanze dentro un montaggio scabro e dilatato, mentre le voci si frantumano in gemiti e dialoghi striminziti. Il tono secco della denuncia si intreccia così con uno sguardo ferocemente intimo, che non permette di dimenticare, nemmeno per un attimo, che dietro tutte le terribili statistiche, le accuse, le ingiustizie, le vittime e i carnefici ci sono corpi, c’è sangue, c’è vita.

Scrive il regista: “Quando Stefano Cucchi muore nelle prime ore del 22 ottobre 2009, è il decesso in carcere numero 148. Al 31 dicembre dello stesso anno, la cifra raggiungerà quota 176: in due mesi trenta morti in più. Nei sette giorni che vanno dall’arresto alla morte, Stefano Cucchi viene a contatto con 140 persone […] e in pochi, pochissimi, hanno intuito il dramma che stava vivendo. È la potenza di queste cifre che mi ha spinto a raccontare la sua storia: sono numeri che fanno impressione, perché quei numeri sono persone”. E forse non bisogna aggiungere altro per parlare di un film che riesce con successo a parlare delle stratificazioni di senso che si annodano nel caso Cucchi senza banalizzarne o dimenticarne nessuno. Che riesce a non renderlo solo un caso, ma una storia, un volto, una voce che risuonano ancora più gravemente in un presente in cui il peso umano – fuori e dentro il carcere – si fa spesso pericolosamente instabile.


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