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Quanti e fasi: “Ant-Man & the Wasp”

Dall’alba dei tempi, o almeno fin dagli anni 70, un interrogativo ha assillato periodicamente il genere umano: perché si va al cinema d’estate? In questa torrida estate del 2018 Peyton Reed potrebbe aver trovato la risposta con un film, Ant-Man & the Wasp, che rispetta tutte le regole da manuale del blockbuster estivo con pure diverse e gradite sorprese e giusto qualche piccola sbavatura di scrittura che però non inficia mai sensibilmente sul prodotto finale, il quale è senza dubbio un buon film, probabilmente non sensazionale, ma comunque buono.

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La storia riprende da dove si era interrotta due anni fa in “Captain America: Civil War” dei fratelli Russo dove il nostro protagonista Scott Lang (Paul Rudd) viene imprigionato sott’acqua per via della sua adesione alla fazione ribelle di Cap. A quanto pare però il regista deve aver patteggiato per una pena più lieve nel frattempo ovvero appena due anni di domiciliari da passare con la figlia Cassie (Abby Ryder Fortson) così da fornire una sotto-trama convincente e familiare (intesa nelle entrambe possibili accezioni) allo spettatore. Se Cassie è innaturalmente felice e spocchiosamente orgogliosa del suo super-papà, di diverso avviso invece è Hope van Dyne (Evangeline Lilly) la quale rimprovera a Scott di aver compromesso la sicurezza sua e del padre Hank (Micheal Douglas) e di aver quasi sabotato la ricerca della di lei madre, Janet (Michelle Pfeiffer), intrappolata nel regno quantico da trent’anni. Ma sarà proprio grazie a un’intercessione onirica, o forse è meglio dire quantica, che le ricerche riprenderanno seguendo un filo conduttore piuttosto sempliciotto, appunto da film estivo, contraddistinto, guarda caso, dall’inserire arbitrariamente la parola “quantico” ogni due frasi (come il protagonista stesso noterà a un certo punto). A mettere i bastoni fra le ruote ai nostri eroi ci sarà una villain interessante ma poco approfondita, lo Spettro (Hannah John-Kamen), alla quale si affianca un ennesimo e ormai inflazionato stereotipo del boss corporativo, Sonny Burch (Walter Goggins), in questo film, vuoi per pigrizia o fretta, ancora meno credibile.

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I punti di forza del film sono principalmente due: Paul Rudd e la relazione di questi con Micheal Douglas. Il primo perché semplicemente è un comico nato e sarebbe capace di far ridere anche rimanendo in silenzio in una stanza senza fare alcunché (cosa che avviene). La seconda, curiosamente, dipende ancora e almeno per una buona metà da Paul Rudd; il rapporto maestro-discepolo tra Scott Lang e Hank Pym è interamente regolato da una perfetta chimica della battuta e i due risultano essere in così perfetta sintonia (quantica?) che le loro sole scene assieme valgono il prezzo del biglietto. Discorso leggermente diverso per Douglas quando si relaziona con tutti gli altri personaggi; difficile capire cosa sia andato storto nella produzione, se la scrittura dei vari comprimari o la necessità di creare dei collegamenti non richiesti; certo è che alcune interazioni paiono forzate o superflue (è il caso della villain, come dicevamo non sufficientemente approfondita). A soffrirne forse più di tutti è la coprotagonista stessa, Evangeline Lilly; nessuno dubita della sua prestanza, attoriale e fisica, per il ruolo di Wasp, la quale specialmente nel terzo atto sa regalare soddisfazioni. Tuttavia, la scrittura leggermente schizofrenica si ripercuote inevitabilmente sul personaggio che appare ora duro e combattivo ora dolce e comprensivo senza fasi intermedie o graduali. C’è poco da dire invece sulla “vera” Wasp di Michelle Pfeiffer, la cui presenza su schermo non arriva ai dieci minuti. Sarebbe un peccato quando non addirittura offensivo per un’attrice del calibro della Pfeiffer, non fosse che lo spettatore marvelliano più accorto potrebbe aver notato che il personaggio di Janet sia ormai diventata a tutti gli effetti una “figlia dell’atomo” e se si collega questa intuizione alle recenti azioni di mercato della Disney non si può fare a meno di provare qualche brivido.

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Ma Ant-Man & The Wasp non è solo personaggi e relazioni ma anche storia, benché tutt’altro che complessa, eppure semplice e appagante nella sua struttura narrativa: Ant-Man & The Wasp è un film a “fasi” intese tanto come concetto fisico quanto metaforico. Ci sono le fasi (ovviamente quantiche) dello Spettro, a causa delle quali l’antagonista è costretta a darsi alla macchia; ci sono le fasi d’intermezzo e di dialogo tra i vari personaggi primari e secondari e in questo frangente Laurence Fishburne, nei panni di Bill Foster, si rivela una gradita per quanto minuscola sorpresa. Meno sorprendenti ma più grandi invece sono gli intermezzi narrativi di Luis, un sempre simpaticissimo Michael Peña, che però questa volta risulta più prevedibile nei suoi tempi comici. Ad ogni modo i difetti del film, che pure sono evidenti, sono messi in secondo piano grazie a un’ottima regia equilibrata e frizzante allo stesso tempo. In particolare, è nelle sequenze d’inseguimento a San Francisco che si ha modo di ammirare l’ecletticità del regista; Reed ha confezionato un film nel quale la commedia insegue l’azione e quando la prima raggiunge la seconda i ruoli di inseguito e inseguitore si invertono. Non c’è dubbio quindi che in questo secondo capitolo di Ant-Man a uscirne vincitore sia il regista stesso, che ormai smarcatosi dalla fastidiosa etichetta di “rimpiazzo di Edgar Wright” può vantare una maturità artistica e narrativa di tutto rispetto. Almeno fino alla prima scena dopo i titoli di coda dove l’intero film cede violentemente il passo alla macro-saga d’appartenenza. Salvo poi riprendersi un po’ di spazio nella seconda post-crediti dove Reed ci ricorda che è pur sempre un film estivo.

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