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Anche i versi somigliano alle bolle di sapone

Su questa raccolta di poesie fresca fresca di pubblicazione, Sul confine (per la collana Licenze Poetiche, Nino Aragno Editore), tenterò un’unica considerazione. Il resto dello spazio sarà lasciato, a seguire, alle parole dell’autore esordiente, Rudy Toffanetti (che tra le altre cose studia lettere all’Università di Pavia). Prima di tutto, però, mi azzardo a chiedervi un superminuto di concentrazione per leggere alcuni versi della poesia Missiva.

Salvo … in questo nugolo di voci io dissolvo

i miei ricordi, le mie inezie, le mie pigrizie.

Ti chiedo, a te lontano, di portarne memoria

di queste proteste disossate di queste

piogge sul far dell’estate.

Di quel parchetto ti dico – come saprai

– che la corrosione delle altalene

era implicita nel loro moto

e la rovina già incendiava

le torri all’orizzonte e dietro le case.

Si sussegue con precisione industriale

il pallore tisico dell’alba

che ogni giorno ci trova costretti

nel letto e rattrappiti sul cuscino.

(Era forse anche meno di un minuto, ma ho preferito stare larga). Qui come in altre poesie si percepisce una polpa emotiva che è palpabile al di sopra (o al di sotto) delle parole. Così che il complesso caleidoscopio di immagini sensoriali (di cui queste poesie sono ben ricche) ci appare, a tratti, come l’unica forma pensabile e sopportabile di questa sostanza; a tratti come lo specchietto per le allodole, la sagoma nera che la nasconde. La si avverte, ad ogni modo, come una presenza compatta, limpida, non corrotta; e ha certo qualcosa di clamoroso, di frastornante per il suo impavido stagliarsi in mezzo a un silenzio di rottami (qui sto pensando a un poesia di Mallarmè, Del naufragio, che parla di un albero maestro senza vele strappato a una nave affondata).

Resta da dire che nessuno, arrivato alla fine della raccolta, sarebbe in alcun modo capace di descrivere questa sostanza, o di circoscriverla a una zona nota dell’interiorità. Tanto meno, mi pare, l’autore stesso. Ed è giusto così: che ci sfiori le ossa- reumatismo di una grande fatica; fatica di partenze fuori tempo, di sgranatura, di sincerità. Di pose scomode: rannicchiati a terra, con le labbra appoggiate sul terriccio umido.

 

Chiedo a Rudy delle sue letture.

 I primi sono stati Montale, Saba ed Eliot, sicuramente. Di Montale amai I limoni, per la chiarità del suo linguaggio e per la sua forza. Di Eliot invece lessi The waste land e credo che fu il primo fondamento di una ricerca più concettuale che poetica (ci sono un sacco di intuizioni e leggerlo a quindici anni ti si spalanca davvero un mondo). Per me poesia e riflessione teorica sono andate quasi sempre di pari passo.

Di Saba amai l’umiltà e credo che per scrivere poesia si debba per forza saper apprezzare Saba. Non necessariamente adorarlo o venerarlo (come nessuno in realtà), però mi sembra che nell’occhio nevrotico e monello di Saba ci sia davvero il senso del fare poesia. Quel suo posarsi sulle cose e saper piegare la mente al tentativo di conoscerle. Se prendi una poesia come Mezzogiorno d’inverno o come Trieste o come In riva al mare lo stile ti sembrerà rozzo, la prosodia imprecisa e la sintassi sconnessa senza ragione, le immagini deboli e quotidiane. Eppure in questi lievi paradossi si svela un conflitto che è talmente interiore da passare per inesistente. In Saba ci si accorge (e lui stesso lo sapeva) che Voi lo sapete, amici, ed io lo so. / Anche i versi somigliano alle bolle / di sapone; una sale e un’altra no (Commiato, da Cose leggere e vaganti). E su questa verità non ci si può fare niente.

 

Ma poi perché mettersi a scrivere.

Si scrive per caso, credo. E non sempre si scrive per amore. Quindi è facile che qualche volta le cose scritte, anche se in forma di versi e immagini, abbiano un altro valore rispetto a quello che è il valore poetico. Ma il valore poetico è solo uno dei tanti dell’esistenza e fare poesia non è altro che uno prezioso strumento per vivere la vita (e mica è poco …).

Ma c’è poi quella che chiamo “materia poetica” (ho tutta una teoria riguardo a quest’espressione); che è quella che ti fa distinguere senza indugio una poesia “bella” da una “ben scritta”. Questa materia significa per me saper trarre dall’esperienza un qualche tipo di verità delle cose, il loro succo: è quando un testo scritto riesce a parlarti (Ma l’amore ha l’amore come solo argomento e il tumulto del cielo ha sbagliato momento, di Dolcenera di De Andrè). Scrivere esige tanto lavoro, non tanto perché uno studia e impara dei trucchetti banali tipo a fare la rima o una sineddoche. Esige tanto lavoro e cura perché nel lavoro e nella cura ci si accosta maggiormente a quello che si sente e lo si ascolta meglio, lo si percepisce di più. Si capisce cos’è che veramente ci interessa dire, quali sono le cose importanti per noi e quali invece sono di contorno. Qual è il tessuto umano, relazionale e emotivo, e qual è invece il contesto inanimato. Non è un problema di scrivere poesie “belle”, è un problema di scrivere per davvero quello che si sente.

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