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Alien: Covenant – Il (quasi) ritorno alle origini di Ridley Scott

Chissà se sia per cavalcare il rinnovato successo del cinema di fantascienza in questi ultimi anni, o per sincera nostalgia del suo primo amore, che il settantanovenne regista Ridley Scott ha deciso di tornare ancora una volta là “dove nessuno può sentirti urlare”, nello spazio profondo. L’11 maggio è approdato infatti nelle sale italiane Alien: Covenant, l’ultimo capitolo di una saga ormai quasi quarantennale, avviata, nel lontano 1979, proprio da un allora semidebuttante Scott con Alien. Quella pellicola inaugurò di fatto un nuovo genere, mescolando in maniera geniale cinema dell’orrore e sci-fi come probabilmente mai era stato fatto prima. La trama presentava l’ossatura tipica del survival horror, offrendo uno schema semplice che, pur con varianti, si ripeterà in tutti i successivi capitoli: il viaggio nello spazio di un’astronave viene funestato dall’attacco di un mostruoso essere insettoide che inizia a sterminare uno dopo l’altro tutti i membri dell’equipaggio, in un continuo alternarsi di momenti di calma apparente – ma sempre con un oppressivo senso di tensione e minaccia incombente – e scene di pura violenza, con corpi orribilmente smembrati e un gusto per l’orrore (della carne) imparentato, neanche troppo alla lontana, con le fobie cronenberghiane. L’astronave diventa così, con i suoi meandri oscuri,  i corridoi claustrofobici e i condotti fumosi, un’autentica casa degli orrori, dove si scatena una brutale caccia all’uomo. Nel ruolo del predatore, ovviamente lui, lo Xenomorfo, il ferocissimo mostro nero dal cranio oblungo, partorito dalla mente di Carlo Rambaldi (futuro papà di E.T.) e del surrealista svizzero H.R. Giger, che quell’anno vinsero l’Oscar per i migliori effetti speciali. A sopravvivere e sconfiggere l’alieno, rivelandosi così la vera protagonista della saga, sarà una donna (scelta a dir poco rivoluzionaria per l’epoca), l’androgina e carismatica Ellen Ripley, interpretata magistralmente da una Sigourney Weaver che diventerà il modello per tante future eroine del cinema. Pur travestito da B-Movie, il film si rivelò un autentico capolavoro, prestandosi ad una lettura stratificata che non risparmia riferimenti a femminismo, evoluzionismo, Freud e gli archetipi junghiani. La metafora alla base comunque è chiara: l’Alien è il mostro che vive dentro di noi (in questo caso letteralmente), quella parte di puro istinto e irrazionalità, libera da qualunque rimorso o morale, e per questo incontrollabile.

All’epoca il film ottenne comunque pochi riscontri positivi, e Scott mosse verso altri lidi. Il franchise venne allora affidato ad un giovane James Cameron, il quale – forte del successo di Terminator – realizza Aliens (1986), sequel decisamente più action e spettacolare, nonché amatissimo da critica e pubblico, che subito lo assurgono ad oggetto di culto. Accoglienza meno fortunata avranno i successivi capitoli: l’allucinato Alien³ (1992), nonostante goda della regia creativa e dark di un esordiente David Fincher, ha il sapore di un’opera su commissione e risente di una produzione più che mai travagliata, mentre Alien Resurrection (1997), sceneggiato da Joss Whedon e diretto dal visionario regista francese Jean-Pierre Jeunet, chiude la quadrilogia introducendo il tema della clonazione e, per la prima volta, un po’ di humour. Del tutto dimenticabili invece i due improbabili crossover con un’altra saga horror, Predator, datati 2004 e 2007.

Il ritorno degli Xenomorfi sul grande schermo, però, era solo questione di tempo, specialmente in anni in cui una Hollywood mai così carente di idee originali si vede costretta a rivisitare in vari modi successi del passato. A rimettere le mani sulla (sua) creatura è dunque proprio Ridley Scott, che nel 2012 dà vita al prequel Prometheus, titolo emblematico del taglio mitico che la saga si propone di adottare. La pellicola ha un cast all-star (nel quale spiccano Noomi Rapace, Michael Fassbender e Charlize Theron) e mette in mostra effetti speciali strabilianti, ma la sceneggiatura – firmata anche da “mr. Lost” Damon Lindelof – crolla sotto il peso delle sue ambizioni, troppo elevate nel voler aprire un discorso su temi esistenziali e filosofici, con l’esplorazione della storia degli Ingegneri, misteriosa razza aliena (fugacemente introdotta già nel primo film) che avrebbe svolto un ruolo determinante nella creazione sia degli Xenomorfi che della stessa umanità. Proprio l’apparizione finale di uno Xenomorfo lega in extremis il film all’originale del ’79, ma nel complesso la sensazione è quella di un’occasione sprecata.

Dopo qualche passaggio a vuoto e il successo sorprendente di The Martian, Scott decide allora di riprendere il filo del discorso sugli Alien, ritornando, come già facevano intuire i primi trailer, alle atmosfere cupe del primo film. Temporalmente la vicenda si colloca nel 2104, circa dieci anni dopo gli eventi di Prometheus e venti prima di quelli di Alien. L’equipaggio della nave spaziale Covenant, in viaggio verso un pianeta da colonizzare, viene bruscamente tolto al criosonno da una tempesta solare che provoca numerose vittime, tra cui il capitano. Dopo aver captato un ambiguo messaggio, il team decide di anticipare l’atterraggio su un pianeta più vicino, un vero e proprio paradiso apparentemente in grado di ospitare la vita (in origine il film doveva intitolarsi appunto Alien: Paradise Lost). Solo l’ufficiale esperta di terraformazione, Daniels (Katherine Waterston, erede designata di Ellen Ripley), intuisce che c’è qualcosa che non va, e i suoi timori vengono confermati quando il gruppo si imbatte in David (un criptico Michael Fassbender, qui in un doppio ruolo da applausi), unico superstite della missione della Prometheus, e nelle terribili creature risvegliate dal relitto. E il massacro ricomincia.

Scott questa volta aveva promesso più brividi e più sangue, probabilmente con il duplice intento di attirare vecchi e nuovi fan, e la pellicola mantiene in toto le promesse, lasciando magari qualcosina all’approfondimento dei personaggi, più funzionali al solito serratissimo body count (in quest’occasione davvero splatter) che altro. Il nuovo sceneggiatore John Logan, uno dei più in voga al momento, sembra voler tappare in fretta i buchi lasciati da Prometheus per muoversi in un’altra direzione, forse più vicina alle riflessioni à la Blade Runner sull’intelligenza artificiale, di cui vengono messe in luce le pericolose ambiguità (in una scena David recita il sonetto Ozymandias di Shelley, ma lo attribuisce erroneamente a Byron). Prosegue comunque l’espansione della mitologia della saga, e in questo un elemento di continuità con Prometheus è senz’altro rappresentato dal sottotesto religioso evidente già nel titolo (“covenant” è un termine che nella Bibbia indica il patto tra Dio e l’uomo). Ma, paradossalmente, nonostante le riflessioni metafisiche e le citazioni colte (da Michelangelo a Wagner) che accompagnano questo folle volo nello spazio, è solo quando la saga ricorre ai suoi tòpoi che funziona meglio, ovvero negli ansiogeni inseguimenti lungo labirintici corridoi, nell’incubo della carneficina provocato dai mostri e nella disperata lotta per la sopravvivenza. Da questo punto di vista quindi Alien: Covenant non dice nulla di nuovo, anzi, forse dice qualcosina di meno (la deriva psicosessuale del capostipite è lontana), ma – godendo di un alto budget – lo dice “meglio”, con scenografie mozzafiato (la città fantasma che ricorda nemmeno troppo vagamente Pompei), nuovi alieni (i Neomorfi) e un paio di combattimenti ultraspettacolari. Ci sono voluti quasi quarant’anni per tornare al punto di partenza, ma nel frattempo l’evoluzione da B-Movie a blockbuster horror è completata. Successo assicurato, sequel(s) già in cantiere.

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