Albania: una dittatura dal nome sbagliato?

Comunismo: dal latino “communis” – “che appartiene a tutti”. L’idea di base del comunismo è quella di eliminare la stratificazione sociale, di porre l’intera popolazione sullo stesso livello. La storia di qualsiasi popolo è segnata dalla volontà dei singoli di avere pari diritti, di essere trattati allo stesso modo degli altri, e l’idea che esista un governo simile è sicuramente allettante. Ma quando il comunismo è stato applicato nella storia, quali sono stati i suoi effetti reali su regime politico e popolazione?

Yuri M., che ora vive in Italia, ci parla della vita in Albania durante gli anni della – da lui definita – dittatura comunista.
“Il comunismo in sé potrebbe essere una cosa giusta, una cosa buona. Ma sulla base di quello che ho vissuto, posso affermare che è un’utopia. Nel comunismo una parte ristretta di persone si impadronisce di un popolo intero, imponendogli il modo di pensare, di vestire, di scrivere. Mancava libertà di parola, libertà di espressione, libertà di stampa. A chiunque stia pensando di riapplicare un sistema del genere, consiglio di fare un passo indietro”.

Come si manifesta questa restrizione sulla libertà di parola?
Ho vissuto in Albania circa i primi 30 anni della mia vita. Un esempio che posso fare riguarda la scuola: l’intenzione era quella di indurre i giovani a elogiare il partito. Nei temi, le tracce riguardavano il comunismo, il partito. Anche come letteratura straniera studiavamo opere inerenti a questo. Non abbiamo mai imparato qualcosa di diverso. E chi andava fuori traccia finiva male. La televisione, inoltre, poteva essere guardata dalle 18 alle 22, dopodiché il segnale spariva. Anche qui, i telegiornali parlavano del successo del comunismo, e i film e i cartoni animati erano perlopiù sulla guerra. Dovevi fare quello che dicevano loro, pensare quello che pensavano loro. Chi doveva salire al governo era una loro scelta, non nostra. Non potevi dire nulla contro il governo.

Come funzionavano le votazioni?
Loro ti davano in mano una scheda già scritta. Non dovevi leggerla: dovevi prenderla, imbucarla nella cassetta, tornare a casa. Tra di noi si diceva che su due persone, una di esse fosse una spia. Dovevi stare attento a chi avevi davanti prima di esprimere la tua opinione. Ho visto intere famiglie distrutte per banalità.
Ad esempio?
Per esempio una donna si era lamentata che nei negozi di alimentari c’era poco cibo. Hanno preso la sua famiglia e li hanno internati.

C’erano limitazioni anche nello sport?
Limitazioni personali no. Ma quando arrivavi a un certo livello, tutto il tuo albero genealogico veniva analizzato. Se uno dei membri della tua famiglia aveva commesso qualche infrazione contro il governo comunista, eri automaticamente fuori. Non importava quanto fossi bravo. Una limitazione presente però era quella di culto. La religione era stata praticamente abolita. Se volevi pregare, dovevi farlo in casa, e di nascosto. Questo fino agli anni ’90, quando è iniziata la caduta del comunismo con le manifestazioni studentesche.

E per quanto riguarda l’organizzazione comunitaria del lavoro?
Questo è stato un altro elemento che posso riferire alla dittatura. Lo Stato sequestrava terreni e negozi a chi li possedeva. Gli ex proprietari magari continuavano a lavorare lì, ma non potevano più gestire l’attività da soli, erano soggetti allo Stato, appunto. A mia sorella invece avevano sequestrato la casa, per trasformarla in uffici. Comunque non posso dire che ci fosse una differenza di strati sociali come c’è adesso, ma semplicemente perché ci avevano resi tutti poveri.

La maggior parte delle persone la pensava come lei, oppure credeva nel comunismo?
Purtroppo ci credeva davvero. Ma anche io inizialmente, dato che ero solo un bambino prima e un ragazzo poi, e non avevo mai conosciuto possibilità diverse. Ho capito che c’era qualcosa che non andava una sera a casa mia, mentre stavamo ascoltando le notizie alla radio. A un certo punto hanno annunciato che un membro importante del partito si era suicidato, e a mio padre è scappato un “Ha fatto bene, dovrebbero morire tutti!”. Quello è stato il mio campanello d’allarme: un adulto che andava contro corrente rispetto a ciò in cui credevo. Non aveva mai detto cose del genere prima, credo per paura che uno di noi figli lo ripetesse inconsapevolmente alla persona sbagliata. E noi eravamo cresciuti sentendo parlare solo bene di questo sistema di governo, ed eravamo inoltre obbligati a partecipare a parate in cui applaudivamo e urlavamo: «Partito, siamo pronti quando vuoi!».

Qual era quindi la prospettiva di vita di un giovane o un bambino, di fronte a tutto questo?
Sapevi di poter star tranquillo in futuro solo se avevi delle conoscenze. Lì era tutto “dare per avere”. Ma in fondo, il destino di ognuno era già scritto, la vita era piatta e nessuno aveva ambizioni, perché non avevamo stimoli. Vivevi per lo Stato, punto. Eravamo condizionati perfino nelle cose minime: non potevi ascoltare qualsiasi tipo di musica, dovevi tenere i capelli corti, così come le unghie e la barba. Ai miei tempi andavano di moda i pantaloni a zampa di elefante, ma non li potevamo indossare. Quando sono scappato dall’Albania, mi sono fatto crescere i capelli e la barba, così per sfogarmi un po’. E quando sento che qualcuno vorrebbe riapplicare i principi del comunismo, faccio due passi indietro per lo spavento. Sinceramente, preferisco vivere.

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