Attualità

La realtà sul finanziamento pubblico ai giornali

di Giovanni Cervi Ciboldi

Le discussioni si possono anche lasciare a metà: a qualcosa saranno pur servite, e comunque non è detto che alla fine si trovi un accordo.
Senza alcuna intenzione di annoiare il lettore, devo riprendere – per via di un certo senso del dovere che talvolta sovviene – una discussione che mi è capitato di interrompere, seppur nella sua parabola discendente, qualche sera fa.
Il tema era quello di un supposto effetto alla formalina dei giornali nei confronti dei partiti politici.
In sostanza, mi battevo contro chi sosteneva che i partiti avessero ottenuto la loro peculiare capacità di galleggiare eternamente nel marasma della politica nostrana grazie principalmente al supporto fornitogli dai giornali. Giornali che, sempre a detta di chi stava dall’altra parte del tavolo, parevano più organi di partito che notiziari indipendenti. Più tentacoli dei ras che autorevoli commentari: che, data la loro influenza sull’opinione pubblica, perseveravano ciò che in una situazione di diversa informazione,non sarebbe stato possibile perseverare.
I motivi di tutto ciò  erano ben chiari al mio interlocutore, così come la tesi da sostenere: i giornali sono asserviti alla politica perché hanno bisogno del denaro che questa gli concede annualmente. La soluzione – tanto semplice da apparire banale – sarebbe allora quella di tagliare il finanziamento pubblico: et voilà, ecco terminato l’effetto incriminato. Questo perché il mondo dell’editoria quotidiana, dipinto da Grillo & Co., diviene popolato di gente completamente svincolata da logiche di mercato, in cui si fanno solo gli interessi dei partiti maggiori. Se questo è lo scenario, ecco che senza più denaro pubblico, pure gli attori reciterebbero meglio. Fai un errore? Perdi credibilità, sei fuori. Scrivi il falso? Sei fuori. Sostieni cause insostenibili? Sei fuori, sempre per dirla alla Crozza-Briatore. Come se non fosse già così.
Di certo dall’autorevolezza di chi vi scrive dipendono le vendite e quindi la longevità del giornale, e per mantenere la prima – e di conseguenza anche la seconda – le penne non possono essere dirette da una logica familistica o corporativa nei confronti di un partito politico. Però dipende anche da che cosa si scrive: vero o falso, su commissione o spontaneo, se un articolo è poco interessante lo rimane a prescindere dall’autore e dalla sua fedina. E il giornale non vende lo stesso.
Di tutto si può discutere, e si può anche essere d’accordo sulla proposta di togliere il finanziamento pubblico all’editoria: sono opinioni, non deduzioni logiche. Ma la domanda che sorge, allora, è: qual è la colpa dei giornali? In un mondo senza sovvenzioni agli organi di informazione, i partiti avrebbero comunque avuto la possibilità di conservare se stessi ed il loro consenso in modo pressoché immutato, pur senza il conservarsi di una situazione di benessere nel Paese? Detto altrimenti, in assenza dello specchio delle brame fornito dal quotidiano, la parte politica che lo ispira avrebbe comunque potuto mantenere i propri titoli senza cambiare di una sola virgola, pur con un’ Italia che sprofondava sempre più nel baratro? Sempre che poi tutto ciò sia vero: perché i partiti politici, con o senza giornali, di consenso ne hanno perso eccome. Perdite che si misurano in milioni di elettori, tutt’altro che spiccioli.
La classe politica, anzi, questa classe politica – che le novità all’orizzonte possano attendere – si è mantenuta nel tempo immutata grazie a operazioni che, rispetto ai giornali di partito e non, furono totalmente in absentia: che non centrano nulla, per dirla semplice. Le più famose sono due, e su queste è meglio concentrarsi.
Primo, era sufficiente camuffare da rimborso elettorale il già abrograto finanziamento pubblico ai partiti, per eliminare non solo la necessità del sostegno vero e diretto nei confronti del partito e del suo programma da parte del cittadino, il quale non avrebbe sborsato una lira – e poi un euro – nel borsello di chi anziché fare gli interessi del donatore faceva i propri.
Secondo, il famigerato porcellum garantiva (e garantisce) che il controllo del politico, solitamente affidato al cittadino, fosse assegnato al ras del partito. Con la conseguenza che al votante non rimanesse altro che scegliere il campanile: ai parroci abitanti pensa il partito, in base a logiche distributive, remunerative ed altri termini complicati.
La conclusione è quella della vulgata che tutti conoscono: in due mosse, ecco tagliata la dipendenza del partito dai suoi fiduciari. Cani sciolti nel numero di due, uno a sinistra e uno a destra. O centro-destra o centro-sinistra, con quel «centro» a sottolineare una terminologia che suggerirebbe che almeno un punto di incontro tra i due schieramenti ci potrebbe essere. In realtà gli unici incontri che finora si sono succeduti sono stati quelli sul ring politico; gli altri sono dettati dalla logica della convenienza, dalla voglia di portare a casa la giornata. (vedi il comune appoggio al governo Monti).
E gli elettori? Non accettare di giocare la partita, astenersi, coscienti di essere comunque minoranza, non chiede giudizi di merito. Basti notare che non conviene. Meglio turarsi il naso e, pur borbottando qualcosa, scegliere. Esatto: si tratta di votare il meno peggio. E infatti gli dai una via di fuga, a quegli elettori smodati, e ti mettono una croce sulle cinque stelle. Dov’è il ruolo dei giornali schierati in tutto questo? Non c’è. I partiti hanno conservato il loro elettorato? Neppure. Quale finanziamento pubblico rende possibile ciò, quello ai partiti o quello ai giornali? Esatto.
E poi, quello che nessuno fa è chiedersi se quei soldi dati dallo Stato all’editoria siano davvero il legame che stringe tra loro i politici e i giornalisti. Prima di tutto bisogna conoscere come funziona questa maledizione di cui tutto vanno parlando: due sono i tipi di finanziamento pubblico all’editoria. Innanzitutto il finanziamento indiretto, che è poi quello contro cui Grillo va latrando, identificato da Report come «la fetta più grossa distribuita a tutti i giornali». Si tratta di nient’altro che uno sconto sulle spedizioni postali, erogato a tutte le testate e basato su un principio semplice: la distribuzione editoriale è un’attività profondamente diversa dallo spedire un sacchetto di valvole alla settimana o una bicicletta al mese, richiede la movimentazione giornaliera di una immane massa di carta, assicurando in tal modo anche al servizio postale una attività certa. Lo Stato, reputando importante per la società il lavoro editoriale ma conoscendo le difficoltà a cui vanno incontro le imprese per affrontare questa complesso tipologia di distribuzione, decide di agevolarla scontandone il prezzo, trasferendo ai gruppi editoriali una somma pari ad una percentuale dei costi sostenuti. Somma che essendo un’ agevolazione sulle spedizioni non prende in considerazione le copie vendute, ma quelle spedite (non potrebbe essere altrimenti). Inoltre, data la natura di rimborso spese parziale, appare chiaro che esso non aiuti gli editori ad arricchirsi: i costi privati supereranno sempre i trasferimenti provenienti dal pubblico.
Si diceva che questi soldi sono erogati, appunto, a tutte le testate – anche al Fatto Quotidiano: ex lege, lo scrive sotto la testata, di fianco a «Non riceve alcun finanziamento pubblico» dove appare, piccola piccola, la dicitura «Sped. abb. postale D.L. 353/03 (conv. in L.270/02/2004) Art. I comma I Roma Aut. 114/2009». Che significa che, dietro richiesta approvata, il quotidiano fruisce di «tariffe postali agevolate per i prodotti editoriali». Le quali, nel caso del Fatto e secondo Dagospia, fanno mille euro al giorno.
Per fortuna esistono i numeri, e le battaglie di principio andrebbero condotte dopo averli letti, non prima. Basti l’esempio del gruppo RCS. Rizzoli, Corriere della Sera. Ricavo netto: poco più di 2000 miliardi di euro. Entità del finanziamento pubblico indiretto, o agevolazione postale: poco più di 23 miliardi di euro. Per fortuna esistono i numeri: il finanziamento pubblico pesa meno del due e mezzo per cento. Briciole? Per niente, ma una certa onestà intellettuale porterebbe ad ammettere che non sia comunque abbastanza per assegnare alla politica il decantato ruolo di pistola alla testa dell’editore.
E, comunque, i giornali rispondono sempre e in ogni caso a logiche di mercato. Ad esempio, Il Riformista ha chiuso. Repubblica ha riorganizzato le proprie sedi – e via discorrendo. I giornali che hanno bisogno del finanziamento pubblico per sopravvivere, per offrire qualche stipendio a qualche trombato della politica o nostalgico dei tempi che furono, sono giornali che già non vendono. E se non vendono vuol dire che non sono letti. E se non sono letti non si vede come possano influenzare l’opinione pubblica e tirarla verso il partito di riferimento.
Ma poco letti (eppur sopravvissuti) non sono i grandi giornali – i quali, come si è visto, starebbero in piedi a prescindere. È qui che entra in gioco il secondo tipo di finanziamento pubblico, quello comunemente chiamato diretto. Ad avvantaggiarsene sono settantadue testate che sono divise, nella tabella che mostra l’entità delle erogazioni, per categoria. La categoria che contiene i nomi più celebri è quella dei “Contributi per testate organi di partiti o movimenti politici”, ovvero quotidiani di partito. Attualmente dodici, di cui l’Unità, Il Secolo d’Italia, La Padania ed Europa sono quelli più celebri.
Secondo Ads (Accertamenti Diffusione Stampa) tutti questi dodici giornali, considerati come se fossero uno solo, stampano meno della metà del solo Corriere della Sera o Repubblica, vendono ancora meno, e ottengono un finanziamento indiretto pubblico di poco superiore a quello di RCS o del gruppo che fu dell’ingegner De Benedetti. Tanto per chiarirsi le idee, a giugno 2011 l’Unità (il più famoso tra i giornali di partiti) stampa poco meno di 120.000 copie e ne vende poco più di un terzo: meno di realtà cittadine come l’Eco di Bergamo o il Giornale di Brescia. Se non fosse ancora chiaro, i giornali non compresi nelle categorie del finanziamento diretto – come ad esempio il Corriere della Sera, Repubblica, Il Giornale, Libero o Il Fatto Quotidiano – non lo incassano affatto: godono di null’altro che sconti postali.
Emanazione di un partito, i fogli che escono da queste rotative sono strumenti politici. Non mi esprimerò su quella che è un’opinione diffusa, cioè che sarebbe un bene che questi giornali, incapaci di reggersi sulle sole proprie gambe, chiudessero. Primo, perché non lo credo; secondo, perché non conoscendo da vicino quelle realtà non ho strumenti a sufficienza per poterlo affermare; terzo, perché la chiusura di una redazione è sempre la peggior sciagura che possa capitare nel mondo dell’informazione. Certo, chiudere il rubinetto che porta acqua ai giornali di partito significa obbligarli a rivedere le proprie strategie, essendo testate elitarie con un basso valore aggiunto e non in grado di differenziare la propria produzione. Significa, in qualche caso, anche obbligarli chiudere. È il meccanismo della concorrenza, usato quando fa comodo anche da chi lo ha sempre rifiutato. Basta poi non appellarsi ad un principio di concorrenza da sempre rifiutato e utilizzato a piacimento.
Si può certo dire che la libertà di informazione dipenda anche dalla pluralità di editori: certamente non solo da quella. All’interno di questa offerta plurale, i cittadini consumatori compiono una scelta, mostrando con chiarezza quali giornali interessino e quali no – è appunto il mercato. Può darsi che questo indichi anche di un giudizio di valore: ma ci sono eccezioni, dal momento che anche un piccolo giornale può essere importante per il principio della pluralità delle fonti. Solo che anche di un giudizio di valore si può dire che sia soggettivo e tutt’altro che assoluto. Si ripresenta allora la questione: questi dodici giornali muterebbero linea qualora smettessero di ricevere denaro dal pubblico? Organi di partito sono, ed organi di partito rimangono: non cambierebbero una virgola.
Ricapitolando: le testate di partito fanno l’ovvio interesse del partito, la loro terza gamba è fatta di denaro pubblico, ma sono deboli e non in grado di influenzare l’opinione pubblica. Le grandi testate invece hanno bilanci voluminosi, vendono molto e per questo possono influenzare l’opinione pubblica, ma non ricevono alcun finanziamento che non sia lo sconto sulle spedizioni postali, calcolato per ognuno su percentuale fissa generale. Che di certo non giustifica le loro scelte editoriali.
Organi di partito a parte, per tutti gli altri giornali il problema è ancora politico. Politica dei giornali, dei giornalisti: non quella che si fa in parlamento. Esistono giornali “schierati”: è questo il peccato? Ovvio che no, questo è il motivo per il quale i siti delle agenzie di stampa hanno meno contatti di quelli dei quotidiani. È  il motivo per il quale i giornali vendono: fanno informazione con la loro strategia di prodotti in concorrenza con altri. Offrono i propri articoli, li confezionano come meglio credono per incrociare il palato del consumatore. Se ciò non fosse vero, non vi sarebbe alcun motivo di comprare Il Fatto, il cui titolo si scrive in rosso, piuttosto che Libero, sottolineato da una linea azzurra.
E la gente? La gente ha idee – idee diverse, e in base a esse compie delle scelte: tra cui quella del giornale da acquistare. I giornali sono fatti da uomini, diversi fra loro ma tutti intenti ad imprimere sulla carta le proprie idee e visioni con righe di piombo da condividere con i lettori. Per questo, nella maggior parte dei casi, chi arriva all’edicola sceglierà il giornale che crede offrire la visione più vicina a quella che gli ronza nel capo. Nessuno comprerebbe le scarpe marroni, se preferisce quelle nere. Specialmente se deve indossarle con un abito blu. Se fosse il contrario, non vi sarebbe alcun motivo di scegliere Il Giornale anziché la Repubblica.
Il tema può allora passare nel campo del tipo di prodotto offerto: dei contenuti, delle scelte – del confezionamento del prodotto. Secondo la teoria inciucista esposta all’inizio, ripetiamo, un giornale tende verso il senso del partito che gli assicura il denaro del finanziamento pubblico: ma il finanziamento è appunto pubblico, non partitico. Perché mai un giornale, ricevuto dallo stato un finanziamento di una qualsiasi entità, dovrebbe rispondere più al Pd che al Pdl? E si conosce ora l’entità del finanziamento pubblico ai giornali: è possibile continuare a sostenere, come fa Grillo, che è questo il trait d’union tra partiti e giornalisti? Ed è possibile che questo muti i cani da guardia in cani da riporto? Evidentemente no.
Gli oppositori più tenaci potrebbero a questo punto accusare gli editori di fare il gioco dei politici. Con il piccolo particolare che gli editori sono soggetti privati ed è nel loro pieno diritto fare esattamente quello che credono. Alcuni di loro hanno interessi politici? Eccome, in alcuni casi. Ma tolto il finanziamento pubblico al giornale, queste testate smetterebbero di essere proprietà di quell’editore? No di certo. E quale mai sarebbe allora il motivo per il quale la testata dovrebbe smettere di fare il proprio interesse, anche politico? Il finanziamento pubblico ai giornali, per come è strutturato, ha una influenza pari a zero sulle scelte di parte dei grandi giornali contro cui molti puntano il dito. La linea del giornale la fanno gli editori e la redazione, non i partiti. Ma come mai quelle scelte potrebbero talvolta apparire così vicine alla volontà di una parte politica? Sono state spese moltissime parole e riempite moltissime pagine. Le redazioni raccontano: si danno battaglia con le parole. I fatti, li fa politica. Talvolta potrebbe trattarsi anche solamente di mantenere un equilibrio, una logica che pur riflette quella dei duellanti politici, guidata dal fatto che i giornali, attenendosi alla verità, non possono che limitarsi a riportare e commentare uno schema esistente già realizzato da qualcun altro.
C’è qualcosa di sbagliato, di perverso in tutto questo? Io penso di no. C’è un gran numero di giornalisti liberi, gente che le canta chiare sia da una parte che dall’altra. Giornalisti che sono disposti anche a pagare un grosso prezzo per riempire una mezza pagina con una idea propria e contraria alla parte politica di riferimento del giornale. E non credo che siano la minoranza, anzi. Di negativo c’è la retorica politica che molti giornalisti hanno assorbito, cosa che li porta ad identificare ed appellare alcuni colleghi come “servi” a prescindere da quello che scrivono e per il solo fatto di offrire la propria firma ad una testata piuttosto che ad un’altra, senza valutarne l’onestà intellettuale. Senza chiedersi come mai, opposte due visioni, una dovrebbe considerarsi asservita e l’altra invece un esempio di purezza. In ogni caso, che lo schierarsi dei giornali sia una conseguenza dello scontro politico appare abbastanza chiaro. Ciò che però è chiaro è che non sono i giornali a tenere vivi i contendenti:  nessun direttore, fino a questo momento, ha potuto vantare un tale merito. Probabilmente non lo desidera nemmeno.
In ogni caso, la discussione non sta tanto nel “quale parte si sceglie”, ma nel “come si sta da quella parte”, cioè come si opera. Vista da lontano, quella delle prime pagine può essere una guerra: un giornalista che stimo molto ha detto che se è congenito che prima o poi qualcuno spari, si rischia di pensare che tanto valga farlo per primi. Ora, non ricordiamo più chi l’abbia fatto per primo. Le destre ricordano che, dalla nascita del PCI, i giornali hanno iniziato a togliere i fiori dai cannoni e metterci delle palle di piombo. I mancini spostano invece questa nuova attitudine alla nascita della macchina mediatica berlusconiana. È però certo che se la politica raccontasse un mondo diverso pure i giornali ne racconterebbero un altro. Se le munizioni della politica fossero le idee, i giornali sarebbero pensatoi anziché poligoni di tiro. Ma questo accadrà quando i partiti, anziché vivere di soldi pubblici, torneranno nelle strade, con liste di cognomi e campanelli da suonare: cioè quando i partiti avranno la faccia abbastanza pulita per andare a batter cassa porta per porta, sapendo di non poter più ricevere ossigeno se non si offrono in cambio soluzioni. La bestia da affamare non sono i giornali. È la politica.

Un pensiero su “La realtà sul finanziamento pubblico ai giornali

  • Laura Possamai

    Lei ignora quindi che l’Italia si trova attualmente al 61° posto nel mondo per la libertà di stampa? Sessantunesimo! Montanelli si è dimesso, quando è iniziato l’asservimento.

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