CulturaRiflessioni

“Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto”

Il giudizio estetico permette all’uomo di interpretare la natura come finalisticamente organizzata, consentendogli di riconoscersi libero di agire perseguendo fini indipendenti da quelli necessari impostigli dalla natura. Tale spazio di libertà, che si apre all’interno di una natura meccanicisticamente organizzata, gli consente inoltre di dirigersi vero il fine dell’umanità, cioè verso la cultura intesa come piena realizzazione razionale rispetto a cui ogni specifico sapere diviene strumento.

Questa è, sommariamente, l’affermazione a cui giunge e con cui si chiude la “Critica del Giudizio” (Kritik der Urteilskraft) di Immanuel Kant. Si tratta della terza e ultima opera critica kantiana, pubblicata nel 1790, esattamente nove anni dopo la pubblicazione della “Critica della Ragion Pura”.  Nella prima Critica, Kant descrive e arriva a conoscenza di un mondo naturale empirico regolato da leggi meccaniche; prospettiva che pare kant2inconciliabile con quella esposta nella seconda Critica (la “Critica dellla Ragion Pratica”, 1788), sostenendo il postulato della libertà umana come ratio essendi dell’agire morale e della responsabilità. Ecco che, allora, la “Critica del Giudizio” appare come un tentativo di coniugare tali prospettive diverse: la natura è sì organizzata e conoscibile solo mediante il riconoscimento di leggi meccaniche, ma l’uomo interpreta la natura secondo le proprie esigenze di ordine e finalità. E poiché la natura è interpretata come finalisticamente organizzata, appare all’uomo in sintonia con le proprie necessità e ciò legittima l’intromissione della libertà in un mondo meccanico. La libertà umana gli consente di agire perseguendo dei fini liberi e il fine ultimo dell’umanità è, nell’interpretazione critica, lo sviluppo di una piena razionalità. Il fatto che l’agire e la ragione umana abbiano una finalità è, secondo Kant, il tratto peculiare che distingue l’uomo dagli animali.

Il fine dell’umanità è il suo pieno sviluppo razionale.

Forse è esattamente questo il lascito fondamentale della terza ed ultima Critica kantiana. Al di là del giudizio sul bello, al di là del sublime matematico o dinamico, al di là di ogni legittimazione della libertà, quello che non si dovrebbe mai dimenticare dell’opera kantiana è la responsabilità di cui l’uomo è investito.

Tutti i saperi, dice Kant, non sono altro che strumenti per il compimento della razionalità umana. Tutti i saperi, e tutte le azioni, si potrebbe aggiungere. Se l’umanità è finalisticamente orientata, nessun singolo individuo può sfuggire dal suo compito. Ogni azione che contrasti il pieno sviluppo razionale dell’umanità è un danno alla stessa.

Ed ecco che sopraggiunge la riflessione sulla quotidianità e con essa, un certo sconforto.

La nuova tensione creatasi tra Stati Uniti e Corea del Nord; le vecchie, ma tuttora in atto, crisi in Medio Oriente; la violenza dello Stato verso i suoi cittadini cui abbiamo recentemente assistito in occasione del referendum catalano. Ma è possibile citare anche il risorgere dei populismi e delle destre; delle violenze tra privati cittadini; del dilagare di sentimenti razzisti, xenofobi. Come quello spettacolo al Bolshoi di Mosca organizzato in onore di Rudolf Nureyev e vietato dal presidente Vladimir Putin per riferimenti espliciti all’omosessualità; quegli annunci che recitano più o meno “non si affitta a studenti di colore, meridionali e con tendenze omosessuali” che stanno dilagando in città universitarie italiane e che ricordano tanto tristi pregressi storici.

Ecco, ora segue la parte arrabbiata, e con essa una certa paternale.

Non stiamo assistendo, e partecipando, solo al regresso storico dell’umanità, ma stiamo contribuendo nella costruzione di una strada che si allontana sempre più dal fine a cui è deputata l’umanità. Basta rivolgersi all’attualità, alla quotidianità, per capire quanto quel telos indicato da Kant, appaia lontano da ogni singolo agire. Non solo ci stiamo dirigendo in una direzione opposta, anzi, stiamo contrastando lo sviluppo razionale dell’uomo. Quando i sentimenti nazionalisti e particolaristi prevalgono sugli interessi comunitari, quando il talento di una persona viene ostacolato perché di un’etnia diversa dalla nostra o perché con un orientamento sessuale differente, non sta succedendo altro che una sistematica distruzione di quanto già costruito, di un  allontanamento dallo sviluppo della piena razionalità. Solo la piena razionalità, solo il pieno sviluppo delle facoltà della ragione umana, restituiscono all’uomo la dignità che gli spetta. Ma ciò non ammette spazio alle superstizioni, alle paure, alla diffidenza, al fanatismo. Nebbia, che si pone tra ogni individuo e il suo compito, il suo fine, l’esercizio della sua ragione.

Fatti non foste a viver come bruti, scriveva Dante quasi seicento anni prima della pubblicazione della terza Critica, ma per seguir virtute et canoscenza. Non solo dissipare questa nebbia dunque, ma in ogni azione, in ogni ricerca del sapere, non omettere mai di considerare il fine ultimo dell’umanità.

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Quella di Kant è sì una morale intimistica, una morale del dovere per il dovere e che si compie, perlopiù se non esclusivamente, nel suo attenersi al dovere morale, all’imperativo categorico; ma la “Critica del Giudizio” apre questo spazio per un agire finalistico dell’uomo, un agire che ha come obiettivo il raggiungimento della cultura. E quando Kant parla di cultura, intende lo sviluppo razionale dell’uomo.

Sapere aude!

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