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A piedi nudi

IL RACCONTO TERZO CLASSIFICATO AL CONCORSO LETTERARIO DI INCHIOSTRO“QUELLO CHE NON HO”

di Marco Oliverio

La sveglia era suonata alle sette come tutte le mattine, Ivan doveva alzarsi; era il giorno dell’esame. Si svegliò ancora intorpidito che tremava per il freddo, si lavò e si vestì macchinalmente, dopodiché prese il caffè e scambiò due parole da automa con la madre. Salì la rampa di scale che portava in camera sua e si diresse verso l’angolo in cui teneva le scarpe, dietro il letto. Quando vide che queste non erano al solito posto, rimase fermo come intontito; dopo un minuto d’orologio, resosi conto che effettivamente le scarpe non c’erano, si riprese dal torpore e incominciò a cercarle per tutta la stanza rabbiosamente, spostando il letto, la sedia e il mobilio. Le scarpe non c’erano e la stanza era stata messa a soqquadro.

Ivan scese le scale imprecando per l’inattesa perdita di tempo; quello destinato a prepararsi era contato al minuto e non c’era il minimo margine d’errore perché aveva ottimizzato il tutto per dormire più a lungo possibile.

La madre era uscita di casa per andare al lavoro e aveva appiccicato un post-it giallo sul frigorifero: “Ti ho lasciato la pasta da scaldare per pranzo”, Ivan lo lesse dopodiché ebbe un gesto di stizza per aver perso altro prezioso tempo inutilmente.

Si mise a cercare nella scarpiera, aprì i cassettoni in fretta e furia, ma rimase di stucco quando vide che tutti e tre gli scompartimenti erano vuoti. Ora, non solo non aveva trovato il paio di scarpe che cercava, ma erano sparite anche le altre paia, almeno quattro, di cui due estive. Era dicembre inoltrato, ma Ivan avrebbe senz’altro messo su le scarpe

estive se solo le avesse trovate. Si girò di scatto e guardò l’orologio appeso alla parete: non c’era più tempo, se voleva arrivare in tempo per l’esame, avrebbe dovuto uscire così scalzo com’era. L’alternativa era di starsene a casa e non dare l’esame, ma Ivan, che aveva studiato diligentemente, non volle nemmeno pensarci. Guardò le calze bianche di spugna ai suoi piedi, si fece forza e uscì di casa: “È possibile che non si accorgano di uno scalzo? In fondo le scarpe sono l’ultima cosa a cui uno fa caso” pensò, mentre camminava sulla ghiaia del cortile. I sassolini erano pungenti e si attaccavano alle calze, Ivan saltellò sulle punte finché arrivò alla strada. L’asfalto era freddo e ruvido al tatto, dalla casa alla fermata del bus c’era circa mezzo chilometro di distanza. Svoltato l’angolo, vide la vicina di casa, un’anziana signora con la pelliccia, che camminava in direzione

opposta alla sua: “Ecco, ci sono, adesso vedremo se si accorge…” pensava mentre si accingeva a salutare. – Salve Pina – disse Ivan nervosamente. – Ciao Ivan – rispose la vecchia senza neanche sforzarsi di sorridere. “Non se ne è accorta, non ha guardato in basso, non ha fatto facce strane…” pensò sorridendo. Aveva appena cominciato a prendere fiducia, quando ad un tratto sentì di aver schiacciato qualcosa di caldo e molliccio con la pianta del piede destro; s’arrestò di colpo, guardò sotto e vi trovò una grossa cacca di cane fumante. Stranamente non si scompose più di tanto: lanciò un’occhiata intorno, vide che non c’era nessuno, si sfilò la calza sporca e la gettò via. Appoggiò il piede nudo al suolo: l’asfalto era gelido e lercio. Finalmente arrivò alla fermata del bus, gremita di gente, e non dovette attendere molto prima che passasse il pullman. Ivan cercava di starsene appiccicato alla folla il più possibile, affinché non si vedesse che era scalzo. Durante i quindici minuti di tragitto del bus aveva esaminato più lucidamente la situazione: avrebbe potuto acquistare un paio di scarpe, ma non c’erano

negozi di calzature lungo la strada, e deviando avrebbe senz’altro fatto tardi all’esame. A dire il vero, si insinuò in lui anche un’altra idea: avrebbe potuto rubare le scarpe a qualcuno con il suo stesso numero, avvicinando e aggredendo un passante con un pretesto qualsiasi. Scartò anche quest’ultima idea: non aveva voglia di finire nei guai per un paio di scarpe. Quando scese dal bus, Ivan, si tolse anche l’altra calza perché non gli andava di tenere un piede scalzo e l’altro no; ora camminava a piedi nudi per la città verso l’Ateneo. Lungo la strada incrociò molte persone, ma erano tutte di fretta, troppo indaffarate per notare un uomo scalzo, e anche se lo avessero visto, probabilmente non gli avrebbero dato importanza; in città la gente è abituata alle stravaganze e alle stramberie dei suoi abitanti, erano indifferenti a tutto, si poteva dire che erano morti. Ivan camminava a testa bassa, speditamente, sopra il suolo sporco della città e i suoi piedi erano già neri. Entrò in Ateneo più morto che vivo, salì le scale ed entrò nell’aula

dell’esame: questa conteneva circa un centinaio di posti, disposti in due blocchi, con al centro un lungo corridoio che arrivava fino alla cattedra del professore. Ivan cercò posto in una delle ultime file, ma non lo trovò poiché l’aula era già quasi occupata per intero; erano rimaste libere solo le prime due file. Fece un grosso respiro e, con il cuore che gli batteva all’impazzata, s’incamminò lungo quel corridoio che sembrava infinito. Era arrivato circa a metà del corridoio quando sentì una voce potente: – Lei, si fermi – disse il professore, un uomo grande e grosso con una lunga barba bianca. – Le sembra questo il modo di presentarsi a un esame universitario, a piedi scalzi? E’ intollerabile una simile condotta in ambiente accademico, non siamo mica in una Moschea, sa? Aveva pronunciato queste parole scandendole per bene e facendole riecheggiare per tutta l’aula. Ivan si sentì immediatamente soffocare, le palpitazioni erano incontrollabili e si mischiavano con un irrefrenabile impulso a fuggire. Tutta l’aula osservava Ivan e i suoi piedi nudi, bianchi cadaverici. In cuor suo, il ragazzo, voleva rispondere al professore dicendogli che quel giorno non aveva trovato le scarpe, che aveva diritto a fare l’esame come tutti gli altri, che si era preparato molto per questo, e che dopotutto si trattava di un semplice paio di scarpe. Tuttavia per qualche lunghissimo secondo non riuscì a parlare, dopodiché disse finalmente qualcosa, ma strozzò la voce e questa uscì troppo bassa.

Il professore ascoltò accigliato e sentenziò: – Comunque, non mi interessa. Lei oggi non può sostenere l’esame, se ne vada per favore. Ivan lo aveva ascoltato immobile, come pietrificato, si era sentito prima schiacciare e poi sprofondare. Con quel poco di lucidità rimasugli si decise ad andarsene, guadagnando metri verso l’uscita; il corridoio, se possibile, gli sembrava ancora più lungo di prima. Ad ogni passo veniva trafitto dagli sguardi dei suoi compagni, alcuni di questi li riconosceva: c’era chi lo scherniva, chi lo insultava, chi lo indicava, chi lo derideva, e infine vide una ragazza molto bella che lo guardava con gli occhi pieni di compassione. Quest’ultimo sguardo gli fece più male di tutti gli altri, il dolore era ormai insopportabile e si era trasformato in rabbia. – Perché mi offendete a tal punto? Tenetevele le vostre maledette scarpe, tenetevele pure! Io ci sputo sulle vostre belle scarpe! Se questo vi fa sentire migliori di me, allora umiliatemi avanti! Anzi, per farvi felici, mi tolgo anche i calzoni!- Nel togliersi i pantaloni, Ivan, inciampò e cadde all’indietro scatenando l’ilarità generale. Ivan si svegliò di soprassalto, turbato e con le lacrime agli occhi. Per prima cosa guardò il timer luminoso della radiosveglia; erano appena le 4 di mattina. Accese la luce e vide che le scarpe erano al loro posto, che le aveva ancora, e non gli erano mai sembrate così belle.

 

 

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