Attualità

A 40 anni dall’omicidio di Aldo Moro

“La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto <<al momento giusto>>”.

Questa citazione, tratta dall’opera “La provincia dell’uomo” di Elias Canetti, apre “L’affaire Moro” di Leonardo Sciascia. Il libro, scritto a caldo nel 1978, e sempre considerato dall’autore più un’opera di verità che un’opera letteraria, è una relazione precisa e scrupolosa sui fatti che sconvolsero l’Italia fra il 16 marzo e il 9 maggio 1978. Un libro che, a quarant’anni dagli avvenimenti, risulta quanto mai attuale, tanto più che nel dicembre del 2017 la commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni ha chiarito che nel caso Moro è stata creata una maestosa operazione di sdoganamento di una versione dei fatti falsa.

d4ba940a8edb4840b382ac59107cfbe7_w240_h_mw_mh_cs_cx_cyLa verità candidamente sostenuta dall’autore siciliano è venuta a galla dopo anni, ma è una verità che fa sorgere domande impertinenti e risvolti inquietanti. Come si è potuti giungere a una conclusione così lapidaria solo pochi mesi fa? Possibile che nessuno di coloro che avevano la possibilità di agire sia intervenuto al tempo? Perché il mondo dell’informazione ha preferito una verità confezionata a tavolino? Questi e altri sono gli interrogativi che sorgono spontanei in questo cupo anniversario e la testimonianza di Sciascia, membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’affaire, risulta ancora più preziosa proprio perché è stata scritta in quei mesi di tensione.

Una delle caratteristiche di Moro che oggi si ricorda più spesso è il suo linguaggio difficile per i più. É curioso notare che nei 55 giorni precedenti al suo omicidio sembrò essere vittima di un vero e proprio contrappasso: i mezzi di comunicazione cominciarono infatti con delle velate allusioni a considerarlo morto prima ancora che venisse giudicato colpevole dal processo allestito dalle Brigate Rosse. O meglio, a considerarlo un uomo nuovo rispetto a quello che era stato in passato. Durante l’affaire, l’espressione “il grande statista” sostituisce sempre più spesso il nome di Moro, quasi ad accentuare il confronto tra quello che era e quello che non era più, a rendere omaggio al leader politico evitando di riconoscerlo nell’uomo nelle mani delle Brigate Rosse, che nelle sue lettere chiedeva esplicitamente ai destinatari di considerare l’opzione di uno scambio tra prigionieri.

A partire dal giorno stesso in cui venne rapito, i giornali si adoperarono con titoli e articoli intrisi di retorica nazionale, come “Il Paese accetta la sfida”, sintesi delle parole del leader del Partito Repubblicano Ugo La Malfa che invitava lo stato a reagire all’affronto dei brigatisti, senza preoccuparsi di garantire la salvaguardia dell’ostaggio. O l’attribuzione a Eleonora Moro della frase “Mio marito non deve essere barattato in nessun caso”, subito smentita dalla donna, ma continuamente ritenuta “sottintesa nella grande dignità civile del suo comportamento”, come un’eroina letteraria.

Una mistificazione continua, che raggiunge il punto culminante in occasione della lettera diretta a Zaccagnini del 4 aprile, lettera in cui Moro spinge ancora per uno scambio di prigionieri. Il giorno dopo le più importanti testate italiane pubblicano il testo con un’avvertenza iniziale: “Come possono comprendere i lettori, il testo della lettera a firma Aldo Moro indirizzata all’onorevole Zaccagnini, rivela ancora una volta le condizioni di assoluta coercizione nella quale simili documenti vengono scritti e conferma che anche questa lettera non è moralmente a lui ascrivibile.” La preghiera di un uomo che rischia la vita e non vuole morire viene giudicato il gesto di un uomo nuovo e provato dalle prigionia. Tenendo conto del fatto che Moro in prigione aveva la possibilità di leggere i giornali, non dovrebbe essere difficile immaginare lo sgomento di fronte a queste parole.

Il 24 aprile arriva un’altra lettera di Moro, quella in cui chiede esplicitamente che al suo funerale non partecipino né le autorità dello stato né gli uomini del partito, tristemente conscio del fatto che nessuno verrà a salvarlo. La lettera viene pubblicata sul giornale della Democrazia Cristiana, “Il popolo”, per “dovere di informazione” e per “rispetto indistruttibile” nei confronti del Moro dei tempi che furono.

Il 5 maggio arriva ai giornali l’ultimo comunicato delle Brigate Rosse, quello in cui viene decretata l’esecuzione della sentenza di morte: “Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato.”. Sul termine “eseguendo”, gerundio presente dilatabile anche verso il futuro, si scatenano mille dibattiti, tanto che il direttore del giornale della DC “Il popolo” dichiara che tutta l’attenzione della redazione è concentrata su quel gerundio. Come se fosse sufficiente una parola trasformata in un recipiente di speranza a salvare un uomo.

259px-Aldo_Moro_brAldo Moro viene ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 il 9 maggio. Poco tempo dopo, vengono inviate delle copie di alcune lettere inedite di Moro dal carcere, ma ben pochi giornali decidono di pubblicare. Il Paese desidera voltare pagina da quei 55 giorni di allerta e stupore.

A 40 anni da questi avvenimenti, è interessante prendere fra le mani i giornali del tempo ed essere avvolti in un’atmosfera che ha del surreale. Aldo Moro è stato trasformato ad arte in un estraneo, in qualcuno di diverso dalla prestigiosa guida della DC. In un uomo che può essere eliminato. Il comportamento delle testate giornalistiche spinge a riflettere su un insegnamento importante, quello grazie al quale la Corte Suprema americana ha scelto di assolvere il New York Times e il Washington Post dalle accuse con cui il governo cercava di ridurle al silenzio: la stampa non è destinata a servire coloro che governano, ma coloro che sono governati. E a farne le spese è stato uno dei cosiddetti “uomini di potere”.

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