Attualità

25 anni fa non è successo niente

Conobbi Salvatore Borsellino. Ero andato a sentirlo insieme a mia madre e a qualche compagno di Libera, in una tiepida serata di fine febbraio a Mesero, un paesino sperduto dell’hinterland milanese. Mi ero preparato a un grande evento, a una sorta di lectio magistralis sulla vita e in particolar modo sulla morte del fratello più grande, Paolo. Mi aspettavo una seduta in pompa magna contornata da rappresentanti delle istituzioni, da legioni di giornalisti, magari anche una piccola diretta televisiva (non dico roba da prima serata, ma almeno qualche TV locale). Niente di tutto questo. Ed era giusto così.

Salvatore Borsellino non è un oratore né un politico. Non cercava consensi quella sera, né li ha mai cercati nella sua vita. A quanto pare per molto tempo non cercava neanche quello di suo fratello. Ricordo che disse: “Il vero fratello di Paolo era ed è sempre stato Giovanni. Loro due sì che si intendevano come veri fratelli e si conoscevano al punto tale da capirsi anche senza parlare. Io, dal canto mio, volevo bene a Paolo ovviamente ma all’epoca eravamo molto diversi. Lui era rimasto nella sua terra, perché credeva in quello che faceva e combatteva ogni giorno la sua guerra. Io invece, laureato in ingegneria, ero andato al Nord a lavorare come del resto accadeva e accade ancora oggi a molti giovani del Sud. Amavo la mia terra ma non al punto da prodigarmi per cambiarla, come tentò di fare Paolo. Dopo quel 19 Luglio ovviamente è cambiato tutto”. Mentre l’ascoltavo, di tanto in tanto mi giravo verso mia madre, seduta diverse fila dietro, cercando di decifrare le sue espressioni nei punti più salienti del racconto. Anche lei infatti aveva voluto o dovuto lasciare la Sicilia per cercar fortuna altrove e siccome la narrazione delle sue vicende mi era, in tutti i sensi, familiare, rimasi placidamente sorpreso nel constatare che la storia della famiglia Borsellino condivideva non poche somiglianze con le storie di altre famiglie comuni, inclusa la mia. Ricordo chiaramente la sua voce, quella roca di un vecchio palermitano incazzato, dalla forte inflessione dialettale che tradiva un’elegante semplicità di contenuto. Il ritmo della parlata, come del resto di ogni buona narrazione siciliana, alternava a momenti di lucido racconto del focolare vere e proprie sferzate quasi urlate o comunque declamate a gran voce. Come un nonno il quale, dopo aver raccontato una vicenda di vita vissuta, ammonisce fermamente ma anche affettuosamente i nipoti su cosa si debba o non si debba fare nella vita.  Niente paroloni sul ruolo delle istituzioni, delle forze dell’ordine, o della magistratura se non qualche accenno comunque mai polemico. Verrebbe da pensare quindi che Salvatore parlasse alla gente comune, al popolo della strada. Ma neanche questo sarebbe vero. Salvatore non parlava alla gente comune, ma alla persona comune. Egli non si rivolgeva a tutti noi ma a ciascuno di noi. Non parlava per incitare la folla a reagire ma all’individuo perché risvegliasse in sé qualcosa. Qualcosa che la routine e la quotidianità rischiano col tempo di sopire e intorpidire: il senso del giusto. Se il sonno della ragione genera mostri allora quello della giustizia genera un cancro silenzioso e asintomatico fino a quando non occorre rimuovere le metastasi. Non è facile poesia questa, ma fisiologia dell’etica. Il saper riconoscere il giusto e lo sbagliato è a tutti gli effetti un senso, affine ai cinque del corpo, che ci avverte quando noi o gli altri agiamo a diretto danno nostro o altrui. Lasciamo che la filosofia si occupi di discutere se questo senso sia innato o meno, ma indubbiamente esiste anche nel peggiore degli uomini (come sosteneva Platone) quel discernimento del giusto e dello sbagliato, il quale, se pervertito da una rassicurante indifferenza, può essere ammutolito o addirittura ribaltato come avviene nei codici d’onore mafiosi. È un esercizio di attenzione costante che non vuole essere solo un ideale incarnato ma un vero e proprio modo pratico di vivere a vantaggio prima nostro e poi di tutti, anche se i fatti sembrano dimostrare il contrario. Forse non lo chiamò mai così Salvatore, ma ne parlò per tutto il tempo.

Ma c’era un pizzico di sconforto nel suo tono. Quanto bastava per ricordarci che essere il fratello di Paolo Borsellino non vuol dire essere il fratello di una celebrità ma di un morto ammazzato da Cosa Nostra e sepolto dall’eloquente silenzio di una buona parte delle istituzioni. Quello sconforto di un uomo che a volte ha la sensazione di essere solo; perché i tempi correnti parlano di speranza ma senza mai incarnarla. Se la prendeva anche per via di tutti quei piccoli grandi successi delle mafie, come la proliferazione di sempre più centri commerciali, non raramente vere e proprie imprese di riciclaggio di denaro sporco. Se la prendeva prevedibilmente con la politica degli inciuci e della salvaguardia delle poltrone. Se la prendeva anche un po’ con tutta quella cultura dell’antimafia di facciata, una coperta di fine seta che, dietro una retorica pregevole, generalizza i fatti spersonalizzando i protagonisti. Se la prendeva anche un po’ con sé stesso per essere arrivato tardi, per essersi attivato solo dopo il 1992, per non essere stato il fratello di cui Paolo forse all’epoca aveva più bisogno. Se la prendeva perché realizzava tristemente che col passare degli anni, da quel 23 Maggio e da quel 19 Luglio, il paese non era cambiato abbastanza. Inutile dire che la serata si concluse tra scroscianti applausi, standing ovation e strette di mano.

Negli ultimi giorni Cosa Nostra ha fatto parlare nuovamente di sé: a Palermo, nel quartiere Zen, dove la statua del giudice Falcone è stata mutilata e ieri ad Agrigento, dove è stata danneggiata la stele di Rosario Livatino. Tutte azioni, ora clamorose, ma che sono solo la punta di un iceberg fatto di quella stagnante indifferenza di cui ha parlato (anche) Salvatore Borsellino quella sera. Una indifferenza presente tanto in Sicilia e al Sud, dove quella dell’omertà è ancora adesso una legge non scritta, tanto al Nord dove le mafie riversano da più di mezzo secolo ingenti capitali riciclati nei piccoli centri urbani (chi volesse un esempio recente si informi sulle farmacie di Corsico). Non tanto la morte di Paolo Borsellino, ma questi silenziosi avvenimenti, sono ancora oggi la causa di quello sconforto che aleggiava sulla voce di Salvatore quella sera e anche su chi si impegna ogni giorno nella cultura e nella promozione della legalità. Forse in fondo quel pomeriggio del 19 Luglio 1992 per una buona parte della popolazione civile non è davvero successo niente.

Oggi a 25 anni dalla strage di Via d’Amelio in cui persero la vita Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna italiana a far parte di una scorta), Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina e il fratello di Salvatore, siamo tutti assorti nel ricordo di quei tragici eventi. Ma come possiamo fare in modo che un fatto simile, ormai storico, possa diventare un ricordo anche e soprattutto per quelle generazioni future che non hanno vissuto quei giorni? Come possiamo far appartenere un evento sempre più lontano alle generazioni a noi più vicine? Forse ricordare basta, ma ricordare cosa? Un evento letto su una pagina di un vecchio giornale o un libro di storia, quasi si studiasse per un’interrogazione? Me lo sono chiesto tante di quelle volte da cominciare a sentirmi un po’ vecchio e sconfortato anch’io. Personalmente ho scelto, come moltissimi altri, di creare i miei ricordi di quegli eventi, incontrando i familiari di vittime innocenti di mafia e parlando con loro. Pertanto oggi, ma non solo oggi, il mio pensiero non va solo ai morti, ma soprattutto ai vivi come Salvatore e altri familiari di vittime innocenti di mafia, condannati spesso a una vita di silenziosi applausi e assordante solitudine. Così ci si appropria di vicende, apparentemente lontane: non (solo) leggendo e ricordando di morte e di morti, ma vivendo nel giusto con chi è vivo.

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