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21 grammi – Il peso dell’anima

di Chiara Bosisio e Sofia Frigerio

Ieri sera a Radio Aut  è stato proiettato  21 grammi – Il peso dell’anima, in occasione della rassegna cinematografica sulla Trilogia della morte (di cui, ricordiamo, fanno parte anche Amores perros e Babel)  del regista Alejandro Gonzàles Iñarritu. Noi di Birdmen c’eravamo.
Il luogo favoriva certamente la creazione di un rilassato clima informale: divanetti, pouf, seggiole colorate, una libreria piena di fumetti e giochi da tavolo… Avevo l’impressione di essere capitata nella taverna di un amico (e con amici). Aggiungete il – tipico – clima uggioso pavese all’esterno e, per completare il quadro, una birretta in mano. Perfetto.
Non fraintendetemi: questo non vuol dire che l’evento fosse gestito con scarsa serietà, anzi, posso dire che l’atmosfera generale fosse proprio il suo punto di forza. Aprendo Facebook ho visto una foto dell’evento: la sala piena, noi, catturati, protesi verso lo schermo (qualcuno si porta la mano alla bocca…). Credo che sia molto importante, in situazioni del genere, sentirsi a proprio agio per poter fruire il film al meglio e per sentirsi liberi di dire qualcosa, magari, a proiezione conclusa. Certo, dopo la visione di un’opera di tale portata emotiva, non è semplice cercare di esprimere anche solo qualcosa di vagamente sensato. Tuttavia, con l’aiuto di Carlotta (la curatrice dell’evento), con molta semplicità, si è riuscito a dare vita a un piccolo, ma pregnante, dibattito. Impossibile non commentare le scelte registiche, confrontarle con quelle di altri – e più famosi, come Birdman e Revenant – film dello stesso Iñarritu; impossibile non notare come, per il suo secondo lavoro, egli osi così tanto (in tutti i sensi), per di più ottenendo di lavorare con un cast veramente d’accezione.
Ma ora veniamo al punto. Cos’è 21 grammi?
La trama è piuttosto complessa, sia per lo scorrere parallelo-intersecato di tre storie diverse, sia per la scelta formale di sminuzzare queste tre storie e rimescolarne le singole parti. E’ una tecnica, questa, che il regista pare applicare in modo sistematico (ne avevamo già avuto un assaggio in Amores perros) e, particolarmente in 21 grammi, senza sconti. Qui Iñarritu sembra davvero giocare col nostro disorientamento, il quale è così forte, soprattutto nella prima metà del film, da modificarne di fatto la ricezione della storia, e quindi anche la foga emotiva con cui ne seguiamo gli sviluppi. Questo disorientamento non è un fatto personale, privato, specifico di un certo tipo di spettatore piuttosto che di un altro; è parte viva della trama stessa del film, che non esiste in quanto trama al netto del suo svolgimento cronologico, ma unicamente mediata (e, almeno in parte, deformata) da questo tipo di spaesamento senza appigli. Mi pare quindi inutile valutare singolarmente questa scelta formale, perché è come presupporre che senza di essa tutto il resto sarebbe rimasto all’incirca uguale: al contrario, il film che vediamo sarebbe stato tutt’altra cosa, diciamo pure un altro film.

E’ necessario, comunque, che questa trama venga almeno accennata, per rendere comprensibili le considerazioni a seguire. Partiamo dall’evento cardine del film – la cui resa cinematografica, per inciso, viene soltanto sfiorata. E’ l’incidente in cui Jack Jordan (Benicio del Toro) investe e uccide Micheal, il marito di Cristina (Naomi Watts) e le sue due figlie. Dopo il decesso, il cuore di Micheal viene donato a Paul Rivers (Sean Penn), che nella fase terminale della sua malattia cardiaca, in attesa di un trapianto, è tornato a vivere con l’ex-moglie Mary (Charlotte Gainsbourg). Il dramma di Cristina, con un passato da cocainomane, la fa ripiombare nella tossicodipendenza; nel frattempo Paul, dopo aver ottenuto informazioni sul suo donatore, ha deciso di incontrare Cristina, e i due iniziano una storia d’amore sigillata dal proposito di trovare Jack Jordan e di vendicarsi dell’omissione di soccorso che avrebbe potuto salvare la vita alla figlia più piccola. L’esito della ricerca è fatale per Paul (che comunque già mostrava i segni di un rigetto del trapianto); e tuttavia, mentre Paul è ricoverato in ospedale, Cristina scopre di aspettare da lui un bambino.
Nell’ultima scena, la voce di Paul, ferma e in un certo modo solenne, scandisce il rapido succedersi di una serie di fotogrammi, in cui si alternano momenti del passato (come quello in cui Jack sta per salire sul pick-up con cui poi investirà la famiglia di Cristina), del presente (in cui Jack si avvicina in silenzio a Cristina e quest’ultima, lentamente, alza lo sguardo su di lui) e del futuro (Jack che fa ritorno dalla sua famiglia, o Cristina seduta sul letto mentre si accarezza il pancione). Sotto a tutto, la voce di Paul pone una serie di domande, che riporto qui sotto e di cui ometto volontariamente i punti di domanda (perché senza dubbio, nel film, suonano più come sentenze).

“How many livs do we live. How many times do we die. They say we loose 21 grams at the exact moment of our death. Everyone. How much fits into 21 grams. How much is lost. When do we loose 21 grams. How much goes with them. How much is gained. How much do 21 grams weight.”

“Dicono che perdiamo 21 grammi al momento esatto della nostra morte”. La scena è di nuovo occupata dal volto agonizzante di Paul: che rimane a occuparla anche mentre noi capiamo, dal segno piatto sul monitor della funzionalità cardiaca, di star osservando un cadavere. Che in quel letto d’ospedale c’è Paul meno 21 grammi.
La scelta di restare su quel volto, cioè di rappresentare l’istante immediatamente precedente alla morte e quello immediatamente successivo, è uno tra i motivi per cui questo film merita senz’altro di essere visto. Non è una scelta leggera, se la si considera con attenzione; alcuni forse direbbero che ha qualcosa di orripilante. Io credo che in essa si trovi riassunto il senso del film.
Sgravata di ogni forma morale o spirituale, l’anima di cui il registra intende parlare è di fatto una presenza reale (o un’assenza reale). Che pur non essendo fisicamente individuabile, si comporta come un fatto posto: e pensando alla legge di conservazione della massa (nulla si crea, nulla si distrugge…), l’unica cosa davvero certa di questi 21 grammi è che non possano andare persi. Che i conti debbano necessariamente tornare. Il marito di Cristina muore, e poco dopo Paul riceve una chiamata dall’ospedale: si è trovato un donatore per il trapianto di cuore. In modo speculare alla fine del film, mentre Paul è in fin di vita, Cristina scopre di aspettare un bambino. Quanto si perde; quanto si guadagna. L’anima di Iñarritu è una questione di contatto, di trasmissione; in grado di legare tra loro storie che appaiono inizialmente senza intersezione. Il mistero non è quindi nel valore simbolico di questi 21 grammi, quanto nei percorsi inauditi con cui si propagano per animare le vite che li ospitano. E tutto il film è, alla fine, un tentativo di rintracciare questi percorsi.
Se poi il peso degli eventi e lo schianto di una morte vanificano ogni tentativo di comprensione, qualcosa della forma umana del vivere ci impedisce di accettare che questi 21 grammi vadano sprecati. Anche a costo di cederli a un’altra vita.

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