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2015 NBA FINALS – THE WINNER TAKES IT ALL

C’è un termine in gergo che è perfetto per l’occasione: «Eyes on the prize». Indica quando ormai, giunti alla fine di una manifestazione, gli atleti osservano davanti a loro tutta la posta in palio.

Come un maratoneta vede lo striscione del traguardo, un calciatore passa davanti alla coppa entrando sul terreno di gioco alla finale di Champions, così le stelle NBA di Cavaliers e Warriors, dopo ottantadue partite di stagione regolare, con annesse fasi playoffs, sono pronte alla finale.

Al meglio delle sette gare, il primo che arriva a quattro vittorie è campione NBA: the winner takes it all.

 

A sfidarsi, come in un perfetto manifesto pugilistico, Lebron James e Stephen Curry.

Il primo, alla quinta finale consecutiva (nessuno come lui dal 1966, era della dinastia Celtics), è riconosciuto come il migliore al mondo; il secondo, MVP della regular season, alla prima finale in carriera, è (parere personale) il giocatore più sensazionale della lega: che sia una tripla folle, una penetrazione o un passaggio, ogni azione del 30 in maglia Golden State ha un sapore diverso, genera sensazioni nel fruitore che nessuno è in grado di replicare.

 

 

lebron

 

 

Ma come in ogni sport di squadra (e il basket men che mai fa eccezione) a decidere una partita (figurarsi sette potenziali) non è mai un singolo giocatore.

 

Se i Golden State Warriors si sono dimostrati solidi per tutta la stagione regolare (il record 72-10, con solo due sconfitte in casa, parla chiaro), Cleveland è cresciuta nel tempo, trovando via via stabilità nel corso della stagione, raggiungendo il culmine nei playoff (i Cavs hanno vinto 26 partite delle ultime 28 giocate in casa, di cui 18 sono terminate con uno scarto uguale o superiore ai 10 punti).

 

In ottica Finals, dunque, diventa fondamentale l’apporto del cosiddetto “supporting cast“. Qui il passo è grande, perché i GSW sono probabilmente la squadra più completa della lega, complice anche il lavoro di coach Kerr durante la regular season, reo di aver convinto tutti (o quasi) del proprio ruolo in squadra: non è scontato, per fare un esempio, che Iguodala, medaglia d’oro olimpica, accetti di partire dalla panchina.

Mentre, per quanto riguarda i Cavs, le cose sono un po’ diverse: le rotazioni di coach Blatt sono molto corte e buona parte dell’ossatura dei Cleveland Cavs è formata da giocatori arrivati durante la stagione (Mozgov, Shumpert e JR Smith). Inoltre, non si può fare a meno di ricordare che per la squadra dell’Ohio è fuori quello che avrebbe dovuto formare, con James e Irving, il tridente (offensivo) delle meraviglie: Kevin Love.

 

 

NBA: Toronto Raptors at Golden State Warriors

 

 

Le finali, dunque, si decideranno soprattutto in relazione agli accoppiamenti: Lebron non può essere marcato, ma i vari Klay Thompson, Iguadala, Barnes e Green potrebbero a turno cercare di limitarlo (i Warriors, secondo i big datas, le statistiche avanzate, sono stati i migliori in difesa durante la stagione regolare). Ma, mentre James, in conferenza stampa, alla domanda: «How do you stop Steph Curry?» ha risposto: «Same way you stop me, you don’t», Cleveland potrà sfruttare uno dei problemi intrinseci ad un sistema offensivo solido e remunerativo come quello di Golden State, la sua unica debolezza: le palle perse (i GSW commettono in media 15.3 turnovers in questi playoff; considerando che i Cavs hanno – da quando si è infortunato Love – la migliore difesa in post season, con solo 92.6 punti concessi, e l’onnipotenza in contropiede di Lebron, le palle perse potrebbero giocare un brutto scherzo a Steph e compagni).

 

Ma la particolarità di queste finali sta anche nel fatto che i due head coach, Steve Kerr e David Blatt, siano, oltre che alla prima esperienza su una panchina in finale, anche al primo anno in NBA come allenatori. Non era mai successo che due rookies si giocassero (dalla panchina) la finale – tranne, naturalmente, che nel 1947, anno delle prime Finals.

 

Entrambi, tuttavia, sono tutt’altro che novellini. Kerr ha vinto cinque anelli da giocatore (tre con i Bulls di Jordan e due con gli Spurs), mentre Blatt, già campione d’Europa con la nazionale russa, lo scorso anno ha portato nella bacheca del Maccabi Tel Aviv l’Eurolega (per i meno avvezzi, il massimo riconoscimento nel basket europeo).

 

 

Golden State Warriors v Portland Trail Blazers

 

 

Ma se la storia dei due sembra molto diversa, in realtà, i destini di Blatt e Kerr hanno rischiato di incrociarsi a inizio stagione. Steve Kerr, accordo verbale siglato, ad un passo dal firmare con i New York Knicks del presidente zen Phil Jackson, decide di andare ad allenare sulla baia; la sua intenzione è quella di creare uno staff importante: ma il terzo nome dopo il suo e quello Ron Adams nel triumvirato che avrebbe allenato gli Warriors, in principio, non era Alvin Gentry, l’attuale, bensì proprio David Blatt. Quest’ultimo, avendo poi ricevuto la chiamata dei Cavaliers, che gli offrivano un posto da head, invece che assistant coach, ha preferito dirigersi in Ohio. Qui, arrivato per “ricostruire”, ha poi visto il ritorno a casa di “The King”, Lebron James.

«Tell the world I’m coming home» è immediatamente diventato il tormentone estivo e Blatt ha dovuto cambiare i propri obbiettivi stagionali: «Niente ricostruzione, dobbiamo vincere!». Una convivenza difficile quella tra il neo-tecnico dei Cavs e “sua maestà”, per tutta la stagione fino ad una parte dei playoff.

 

 

Blatt

 

 

Ma nelle finali di Conference, complice anche l’assenza di Irving, James ha cambiato marcia.

Contro gli Atlanta Hawks, prima classificata a est, The King ha semplicemente dominato. 30.3 punti, 11 rimbalzi e 9.3 assist di media nella seria, con 19.3 punti in vernice (in area) e avendo contribuito direttamente a circa il 57% dei punti dai Cavs attraverso canestri o assistenze; senza dimenticarsi la semplicemente irreale prestazione in gara 3: 37 punti, 18 rimbalzi e 13 assist

(per trovare una prestazione da almeno 37, 18 e 13, dobbiamo risalire all’unico riscontro che abbiamo: Wilt Chamberlain, quando nel febbraio del ’68, con la maglia di Philadelphia, contro i Lakers, realizzò 52 punti, 32 rimbalzi e 14 assist, in una partita di regular season finita 158-128 – un po’ diverso rispetto ad una finale di Conference)

 

Ma la cosa più bella dei playoff è che numeri e cifre scompaiono, rimangono solo gli atleti, una palla a spicchi e due anelli rialzati da terra all’interno dei quali va buttata la palla. Semplice, come ogni meraviglia. Ma come cantavano i Red Hot Chili Peppers: «The more I see, the less I know».

I Golden State Warriors non vincono un titolo NBA dal 1975, mentre i Cleveland Cavaliers non hanno mai vinto (le squadre della città dell’Ohio non vincono qualcosa dal successo del 1964 dei Cleveland Browns nella NFL): il 2015 è un libro aperto: appuntamento alla Oracle Arena di Oakland, California, ore 3 italiane di Venerdì 5 giugno, gara 1, ready?

 

 

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