Sport

2015 NBA Finals review: Il bambino, il re, l’allievo e il duttile dilettevole

«Ogni nuovo inizio comincia con la fine di un altro inizio» – così diceva Seneca il Giovane, ripreso poi dai Semisonics nella loro “Closing Time”. Parole assimilabili a quelle proferite da Lebron James all’inizio di gara-6: «No tomorrow, ehi, no tomorrow, it’s just right now».

Un’altra stagione NBA si è conclusa, le Finals televisivamente più seguite dai tempi dell’ultima serie di Jordan, 1998 contro Utah, hanno visto prevalere i Golden State Warriors di Steph Curry e compagni.

Ma mentre a Oakland stanno ancora raccogliendo i coriandoli e nella lega iniziano a palesarsi i primi sprazzi di post-season – tra contratti, draft e fanta-mercato -, ecco a voi ciò che le NBA Finals 2015 ci hanno lasciato.

 

4-2: IL RISULTATO FINALE, DOPO QUELLO INIZIALE

Gara-1. La tensione dell’appuntamento con la storia da una parte, la consapevolezza del campione dall’altra. Una squadra è più forte, i Warriors, l’altra con più esperienza, i Cavs: 48 minuti non bastano, l’overtime è fatale sia per Cleveland che per Kyrie Irving, fuori 4 mesi, a far compagnia in giacca e cravatta a Kevin Love. Nonostante i 44 di Lebron, vincono i Warriors 108-100.

Gara-2. La Oracle Arena è ancora una volta gremita, i minuti sono nuovamente 53, ma questa volta il risultato è diverso. Isolamento contro ball movement, certo, ma Cleveland sbanca Oakland grazie ai rimbalzi, oltre che alle forzature e alle palle perse di Steph e compagni. 95-93 per la squadra in trasferta.

Gara-3. Si vola a Cleveland, la casa di Lbj (e di Mattew Della Vedova, a quanto pare). I padroni di casa riescono, ancora una volta, a gestire il ritmo – con attacchi lunghi e andando forte a rimbalzo offensivo – e a bloccare by any means necessary Steph Curry. Buona difesa batte brutto attacco 96-91.

Gara-4. La svolta. «Go small or go home»: fuori Bogut e dentro Iguodala dall’inizio, questa la scelta di coach Kerr. Con cinque piccoli il ritmo si alza e si corre in transizione, il campo si allarga e i tiri presi dai Warriors seguono “il flusso”: ritorna la pallacanestro (e la fiducia) di Golden State, che pareggia la serie 2-2 vincendo 103-82 alla Quicken Loans Arena.

Gara-5. Si ritorna nella baia per quella che generalmente, sul 2-2, è considerata la gara decisiva. Coach Blatt corre ai ripari: fuori Mozgov dopo i 28pti di gara-4 nel tentativo di arginare il quintetto piccolo di Golden State. Steph ne mette 37, James 40, ma a fare la differenza, come in tutta la serie, è “la squadra”; i Warriors ne segnano 104 contro i 91 dei Cavs: 3-2, si torna in Ohio.

Gara-6. Match point sulla racchetta per la squadra di coach Kerr, ma il padrone di casa non ci sta. Il re è alto sul trono, l’esercito totalmente in rotta: le lacrime di James e la successiva stretta di mano con Curry sono le ultime immagini della stagione di Lebron. Onore agli sconfitti, ma è tempo di festeggiare per Golden State: il 105-97 segna la vittoria per Steph e compagni, mentre nella sorpresa generale Iguadala viene nominato MVP delle Finals, good job.

titologolden

 

STEPH IS CALM LIKE A BOMB

Steph Curry. Il bambino. L’ammaliatore di folle. Sfidando ogni qualsivoglia istinto poetico suscitato alla vista di una qualsiasi cosa fatta su un parquet da parte dell’MVP della Regular Season, affidiamoci alla storia e alla matematica. 268, le triple segnate in stagione regolare dal numero 30 di Golden State: record. 98, le “bombe” fatte esplodere ai playoff: record. La somma, più che mai in questo caso, fa il totale: 384 triple in una stagione, (che ve lo dico a fare) record.

A questo punto mi tocca una precisazione. Ho sentito dire che Steph sia «il miglior tiratore di sempre»: che lo sia oppure no io questo non lo so; l’unica cosa che evinco da tali numeri è che nessuno ha mai avuto un simile killer instinct, consapevolezza nei propri mezzi (oltre, chiaramente, a tali capacità) unita a una visione della pallacanestro che nessuno al momento ha nella NBA. Già, perché per Wardell Stephen Curry non esiste il concetto di “buono” o “cattivo” tiro, semplicemente, «He’s a bartender and he could make all the shots».

Un esempio, parole di Flavio Tranquillo e musica di Stephen Curry:

[su_youtube url=”http://youtu.be/2TRpGcf3x6M” width=”620″ height=”480″]http://youtu.be/2TRpGcf3x6M[/su_youtube]

 

IL RE, I SUDDITI E L’IMPERO

«I feel confident ‘cause I’m the best player in the world, it’s simply» – così Lebron James, The King, in conferenza stampa dopo la sconfitta in gara-5.

Le parole, soprattutto quando provengono da un leader in grado di mobilitare una franchigia oltre che un’intera comunità (intendiamoci, basket sì, ma non solo) hanno sempre un certo peso. Lbj ha sulle proprie spalle un macigno enorme, da quando era un ragazzino lui è sempre stato “Lebron”. Punto.

“The decision”, la scelta di quest’estate di tornare a casa sua ha modificato la “geografia” della NBA e ha spiazzato chiunque, in prima istanza i Cavaliers, intenti prima a ricostruire e poi a cercare di vincere un titolo. Ma una volta venuti a mancare i deuteragonisti Irving e Love, in contumacia Varejao, ai Cavs restava gran poco. Mozgov, Tristan Thompson e Della Vedova hanno fatto ciò che hanno potuto, andando ben oltre le più rosee aspettative e, in alcuni casi, persino al proprio talento (vero Delly?); ciò che è mancato ai Cavs, o meglio, a Lebron, è stato un supporting cast degno di questo nome: Shumpert e JR, i rinnegati dal maestro zen dei Knicks, non hanno dato il contributo sperato, così come i pupilli di James arrivati da Miami Mike Miller e James Jones, mentre i veterani Perkins e Marion nemmeno sono stati presi in considerazione da David Blatt.

Oltre alle sue lacrime, per sempre resteranno i numeri di James nella serie finale: 35.8 punti per-game, 13.3 rimbalzi e 8.8 assist – assistendo o segnando il 66,84% dei punti dei Cavs.

A dimostrazione che da soli non si può vincere, d’altronde se il basket è uno sport “di squadra”, evidentemente, chiunque necessita di una squadra.

LeBroniwantyou

 

MVP, MVP DELLE FINALS E L’ALLIEVO MAESTRO

Lebron James vs Steph Curry. Steph Curry vs Lebron James. L’MVP della stagione regolare contro il giocatore più forte del mondo. Come sempre, ridurre questo, e qualsiasi, sport di squadra a un duello individuale è piuttosto riduttivo. Soprattutto quando poi a emergere come MVP delle finali è tale Andre Iguodala: più che mai utile, duttile dilettevole, ottimo giocatore e sublime difensore, ma sopratutto l’emblema dei Golden State Warriors di coach Kerr. Il campione olimpico è sempre partito titolare nelle settecento e più partite prima di questa stagione, mentre le uniche presenze quest’anno nel quintetto di partenza sono state nelle ultime tre gare della serie: i campioni si fanno trovare nel momento del bisogno.

Sacrificio e innovazione, ecco la squadra di Oakland. In panchina, con Ron Adams e Alvin Gentry (diventato nel frattempo head coach dei “pellicani” di New Orleans), Steve Kerr, l’allievo diventato maestro, e la sua capacità di sublimare ciò che ha appreso nella sua pluri-titolata carriera: si può vedere un po’ di Popovich, un pizzico di Phil Jackson, con un tocco di Suns targati D’Antoni-Nash; ma la verità è che Steve Kerr è unico nel suo genere. Le sue scelte, da prima dell’inizio della stagione regolare fino all’ultima partita di playoff hanno pagato, sopratutto perché il coach ha convinto i suoi giocatori.

AP NBA FINALS WARRIORS CAVALIERS BASKETBALL S BKN USA OH

 

IL FUTURO GIÀ PASSATO

Si dice che un titolo NBA non serva a consacrare la vittoria nelle finali, ma a celebrare una stagione intera. Nel caso dei Golden State Warriors 2014-2015 è più vero che mai.

Il loro modo di giocare rappresenta, probabilmente, il futuro di questa lega e di questo sport. Ma vivere nel passato non basta, non serve; dopotutto quella di Golden State sarà anche la pallacanestro del domani, ma quest’anno targato NBA si è concluso e ciò che importa è quello che succederà nella prossima stagione: «Ogni nuovo inizio comincia con la fine di un altro inizio».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *